30 marzo 2005

Come cose da buttare.



Arrivano gli ospiti, quelli da far accomodare sul divano mentre si prepara il tè e le tazze e i biscotti, ed io sono nel posto sbagliato.

Non c'entro niente. Una nota stonata. Una vergogna.

Ma si fa in fretta, perdinci, ad aprire lo sgabuzzino, e gettarvi tra vecchie scope e scatole impolverate, quello che non sta bene, quello che è meglio nascondere, tenere lontano dagli occhi, finché gli ospiti non si siano congedati con ampi sorrisi e baci.

In quieta attesa, come un souvenir di un viaggio fatto anni fa, tra scarti, sedie e le cose che non servono più, conto il mio tempo, trattengo il fiato, penso. Mi giuro mai più, non io.

Mancava, alla mia ricca collezione di mostri, sconfitte, e stranezze.

La gaia scienza.




Allevato da due grandi dottori della medicina moderna, mi ritengo molto scettico nei confronti di tutti gli aspetti non istituzionali della cura del corpo, siano essi l'agopuntura o l'omeopatia. E ho mantenuto, invero, una fede positivista nella scienza medica e in tutte quelle pratiche esoteriche e un po' ampollose (infarcite di termini latini e greci prima che anglosassoni) accessibili solo alla casta dei medici, senza domandarmi troppo se i Cayenne Turbo parcheggiati fuori dagli ambulatori dovessero essere riconosciuti come imprescindibili mezzi di trasporto per una professione che vive sul tempo e sulle urgenze, oppure come il frutto di un tacito accordo tra chi vede la salute sfuggire dal proprio corpo e chi, investito di una conoscenza superiore, può godere dell'infinita riconoscenza delle persone strappate ad un triste destino.

Per me, che ho goduto di buona salute e ho studiato tutt'altro, il corpo umano è sempre stata una misteriosa scatola nera in grado di elaborare tanto le sfide della natura quanto le azioni umane volte a modificarle, e rispondere con esiti differenti agli intervento che di volta in volta l'una o le altre attuano su di esso.

Anche il concetto di medicina mi è del tutto oscuro, e la mie supposizioni si basano solo su un atto di fede (prima che in una dimostrazione di fiducia) secondo il quale l'esistenza di ospedali, università, esperimenti e telefilm come E.R. sono elementi sufficienti perché la scienza necessaria che vi ruota intorno sia accreditata ad intervenire sul mio corpo misterioso, a deciderne lo stato di salute o di malattia e, in caso, a praticare interventi per ripristinare equilibri che si titengono perduti.

Quando giovedì sera, dolorante, nauseato, confuso ma altresì dotato di un libretto sanitario, sono finalmente approdato al Pronto Soccorso, ho tuttavia incontrato altri aspetti della scienza medica: la verifica dell'identità personale, la priorità, l'attesa, la disattenzione.

In piedi a debita distanza dal chirurgo di guardia trincerato dietro il monitor del PC, rispondevo alle pochissime domande (Avverte dolore? Ha senso di vertigini e nausea?) ed ottenevo una prima concessione (Torni domani a fare la radiografia alla colonna cervicale). Un'infermiera, molto attraente nel suo camice immacolato, delicatamente mi cingeva il collo con una striscia di gommapiuma semirigida, che avrei dovuto indossare anche se non ho saputo né quando né per quanto tempo.

Il giorno successivo, il mio corpo dichiarato non sano dalla scienza medica, senza mai essere osservato né toccato è stato valutato da altri tre dottori.

  • Il radiologo mi ha fatto accomodare davanti a un apparecchio tedesco, mi ha detto: Si tolga la collanina e trattenga il respiro. Bene così e ha sviluppato le lastre.
  • L'ortopedico mi ha fatto accomodare interponendo il monitor ingiallito fra le nostre persone, mi ha detto: Se avesse bisogno di assistenza legale per il rimborso, questo è il numero di un avvocato con il quale collaboro e ha stampato un referto.
  • Infine, il mio medico della mutua, una signora ancora avvenente ma trascurata (non ho potuto esimermi dall'osservare lo smalto non più perfetto sulle unghie) mi ha chiesto come stavo, ha risposto al cellulare, mi ha detto: Ora le prescrivo qualcosa e ha scarabocchiato una ricetta, dimenticando di intestarla, sbagliando due medicine su due e omettendone la posologia consigliata.

Ho sottoposto uno dei due farmaci (una novità del mercato, e probabilmente foriera di nuovi Cayenne Turbo) a mio padre il quale, non conoscendolo affatto, mi ha consigliato comunque di prenderlo ancora per un giorno.

Diceva Nanni Moretti in Caro Diaro che il vero problema dei medici è che sanno parlare ma non sanno ascoltare; e, aggiungo io, che non hanno nemmeno troppo interesse ad essere ascoltati.

Adesso il mio corpo sta aspettando lo scadere del periodo dopo il quale, sempre secondo questa onnipotente scienza, ritornerà perfettamente sano e funzionante.

Nell'attesa scrivo, perché scrivere mi fa stare bene almeno nello spirito e se gli antichi dicevano mens sana in corpore sano, un fondo di verità ci dovrebbe pur essere. Altrimenti, una scienza che si dice tale avrebbe già falsificato questa pericolosa teoria non foriera di alcun Cayenne o viaggio premio.

29 marzo 2005

Qui a Genova.



Quarto giorno di riposo forzato nella mia vecchia città di mare. La mia cervicale traumatizzata ringrazia il popolo automobilista di Torino e prima cintura.

Non trascorrevo un giorno feriale a Genova più o meno dai tempi in cui lavoravo per la Xerox a Sampierdarena.

Poi, una volta partito per Torino, è stato tutto un vivere di premura e di fatica e solo dal sabato alla domenica, in quell'atmosfera frenetica e sonnolenta del fine settimana.

E' la prima volta che giro nel grande appartamento dei miei genitori senza guardare l'orologio ogni due minuti, col terrore di perdere il treno o di dimenticare qualcosa in bagno.

Semplicemente, ascolto. I rumori di Genova non li ricordavo quasi più. C'è lo sciamare incessante delle Vespe che ronzano coi i loro vecchi motori a 2 tempi. Ci sono i gabbiani la mattina presto. C'è quel rumore che profuma di sale, quello che senti camminando in Corso Italia nelle giornate di mare e di vento. Ancora più intimo: il rumore dei miei genitori che aprono e chiudono porte e sportelli.

Mi manca tutto questo. Quasi, stavo per dimenticare da dove vengo, dove sono cresciuto. Si sta allo stretto, è vero: ma come in un abbraccio.

Una piccola fitta al cuore. Ghe voe tanta pasiensa, direbbe mia nonna.

Crash!




Giovedì sera, pioggia battente, stavo tornando verso casa quando ho avuto un incidente: fermo ad un semaforo rosso di Corso Potenza (stavo seguendo Pinocchio su DeeJay), sono stato tamponato con una certa violenza da un'auto che sopraggiungeva dietro di me.

Quando studiavo per la patente A, rozzo sedicenne in preda agli ormoni, memorizzai bene che nel caso in cui si provochino incidenti, il primo dovere di un guidatore è assistere immediatamente gli eventuali feriti coinvolti nell'incidente. Ma la cattiva sorte mi ha mandato uno che il libretto non deve averlo nemmeno sfogliato.

Fatto sta che, dopo avermi fortemente urtato e provocato un trauma (distorsione rachide della cervicale, dirà il dottore del Pronto Soccorso del Maria Vittoria), l'incauto guidatore nemmeno si è degnato di uscire dall'abitacolo e ha accostato solo dopo un mio esplicito richiamo verbale.

Il colpo di frusta, per chi non l'avesse ancora provato, è tutt'altro che piacevole: capogiri, dolore, nausea. Nel pieno di questo quadro clinico, quel bifolco disquisiva, sotto una pioggia insistente, sulla possibilità o meno di aggiustare il mio paraurti senza la necessità di sostituirlo.

A nulla è servito dirgli: "del paraurti non me ne può fregare di meno, voglio solo andare in ospedale, sto male e mi viene da vomitare!", quello continuava a insistere che il paraurti, il fottuto paraurti, non poteva essersi danneggiato per un urto avvenuto, se avvenuto, a soli 20 km/h. Vagli a spiegare le leggi della fisica: l'unica legge che ha capito è stata la legge dello Stato quando alla mia comunicazione di volerlo denunciare per danneggiamenti e omissione di soccorso, ha filalmente accondisceso a fornirmi, con la lentezza di un buddista in meditazione, i suoi dati per compilare un CID ormai zuppo d'acqua piovana.

Per la cronaca questo è il terzo sinistro che subisco dall'inizio dell'anno. Tre personaggi illustri hanno popolato la mia esistenza di guidatore ligio: il primo era senza assicurazione RCA, il secondo mi ha minacciato di passare alle vie di fatto se avessi "fatto la torta", il terzo... beh, sarà ancora lì sotto la pioggia a chiedersi: "ma forse il paraurti..."

Luci accese anche di giorno, e prudenza, sempre. E vai Nico, anche su quattro ruote!

27 marzo 2005

La strada verso il Regno di Oz.




Sulla strada di mattoni gialli si tengono compagnia una bambina senza casa, uno spaventapasseri senza cervello, un boscaiolo di stagno senza cuore e un leone senza coraggio, accomunati dalla speranza di ottenere le tessere mancanti del proprio mosaico esistenziale dal misterioso e onnipotente Mago di Oz. La storia la sappiamo tutti.

Eppure è raro mettersi in gioco e intraprendere il lungo cammino verso Oz. Io stesso, sovente, preferisco la mia vita randagia (Dorothy), fatta di scelte sbagliate (spaventapasseri), crudeltà (boscaiolo) e atti meschini (leone). Sono in buona compagnia, ci mancherebbe.

Ogni tanto, però, mi indigno, mi scontro con la quotidianità, con la disattenzione, quella mia e quella degli altri. E penso che almeno uno degli aspetti della vita adulta - lontana dall'incosciente entusiasmo idealista dei vent'anni - sia proprio questo, la disattenzione.

Per gioco, si possono rappresentare i rapporti amicali dell'età adulta con un sistema di assi cartesiani il cui risultato (che chiamo La curva di Oz) spiega come, laddove non esista il dolo intenzionale, cioè la deliberata intenzione di arrecare alle persone amiche dolore col proprio comportamento, si instaurino meccanismi di progressiva diminuzione dell'attenzione (non delle attenzioni) nei confronti dell'altro.

Tra le paradossali conseguenze delle modernità esiste, accanto all'ossessione di avere tutto (beni materiali), una superficiale supponenza dell'avere già tutto (beni immateriali) per cui non è rara la tendenza a dare per scontati l'intensità e l'esito delle proprie azioni eterodirette (il boscaiolo che vuole un cuore per amare gli altri e lo spaventapasseri che vuole un cervello per comprendere il mondo fuori da sé) mentre è grande l'attenzione alle azioni in qualche modo autodirette, edoniste, legate al soddisfacimento delle proprie esigenze immediate e alla sopravvivenza (Dorothy che cerca la propria casa, il leone che vuole in dono il coraggio).

La strada di Oz è poco frequentata e anche i protagonisti della fiaba, nella consapevolezza della propria incompletezza e nella conseguente tensione al miglioramento di sé (per altro con differenti motivazioni), incontrano ben pochi passanti.

La mia percezione, per quanto poco scientifico ci sia nei sensi, è che la strada per Oz divenga col passare degli anni sempre più una via secondaria e che, al contempo, la curva del grafico tenda ad appiattirsi in modo incontrovertibile sull'asse delle ascisse.

Il mago di Oz ci insegna anche altro: il disattento, sebbene non doloso, non è innocente ma complice, in quanto consciamente abdica di fronte al dovere di completare la parte deficitaria del proprio sé, e persevera nel negare al prossimo l'attenzione che dirige verso il completamento ossessivo di collezioni di beni materiali e piaceri del proprio corpo.

Come in molti racconti, si salva il cane: istintivo tanto nella sopravvivenza di sé quanto nella strenua difesa del proprio padrone, non ha autocoscienza ma ha cuore, cervello e coraggio e, privo di molti dei basic needs tipicamente umani, chiama casa ogni giaciglio che gli consenta un riposo adeguato.

L'happy end è necessario in un mondo che ha necessità di favole. E infatti è una favola e non una cronaca. Il mondo cosiddetto occidentale proseguirà nel proprio necessario, disattento ed autodiretto cammino verso l'ignoto. Io ne faccio parte né mi distinguo per particolari doti di abnegazione. Tutt'altro.

Ma questa strada, lastricata di mattoni gialli, ora l'ho intravista. Devo solo chiedermi: "che cosa mi manca?" e posarvi un passo alla volta.

Non sarà necessario raggiungere la Città degli Smeraldi: il Mago di Oz con il suo Regno meraviglioso, semplicemente, sta nel dedicare un po' più di attenzione al prossimo, e tentare di correggere anche di poco l'andamento della curva di Oz.

26 marzo 2005

Missione compiuta.




Criticato, sbeffeggiato, ridicolizzato, ma prima di tutto perfettamente inutile.

Così, dopo due imbarazzanti e striminziti messaggi e tanto, tantissimo silenzio, il blog di Prodi Prodi ha finalmente chiuso.

Temporaneamente, recita laconico il suo sito. Ma quella scritta equivale a un liberatorio certificato di morte.

Sono servite le critiche di tanti blogger - ben più autorevoli di me - che in queste settimane hanno democraticamente obiettato alla credibilità e alla necessità di un diario vuoto e privo di pensiero.

Ma tant'è, voglio dire la mia. Mi sento partecipe di questa piccola vittoria, di questa piccola missione compiuta. Nulla di personale. Il Professore, autonominatosi Presidente con un coraggioso senso dell'umorismo, non è peggiore dei suoi avversari.

Ma questa è la Rete, non l'arena politica. Resti là, Prodi, a riempire d'aria l'aria già stantia del Palazzo. Ciascuno al proprio posto.

24 marzo 2005

Un altro colpo al cerchio.

Dopo qualche tempo sono ritornato sul blog di Prodi per vedere se il candidato a guidare questo Paese è riuscito a ricordarsi di far scrivere almeno una riga da qualcuno del suo staff pagato con le mie tasse.

Niente. Vuoto pneumatico. Tragicamente, quasta penuria di scritti spontanei sembra essere lo specchio di una penuria ben più grave, quella di pensieri e programmi.

In compenso nell'arco di un mese ha scritto 20 discorsi. Dalle mie parti si direbbe discursci, ovvero chiacchiere.

22 marzo 2005

L'obbligo di vivere la notte.




Fotografare la notte vuol dire anche incontrare persone che la notte la vivono senza scelta.

La notte è quiete, la notte è quasi priva di rumore. La notte permette di vedere gli occhi stanchi e rassegnati.

Ore 22:10. L'occhio incollato al mirino della mia Nikon, il Profisix in mano. Una Punto della Polizia accosta al marciapiede che sto fotografando.

"Che cosa sta fotografando?", chiede il poliziotto.
"Il marciapiede", rispondo io.
"Fotograferà altro?", chiede il poliziotto.
"Non lo so", rispondo io. Mento: sì, fotograferò altro.

Pochi secondi di titubanza. La Punto si allontana sotto la luce artificiale delle lampade survoltate di Corso Livorno.

Ore 23:30. Oltrepasso una recinzione sotto il nuovo cavalcavia della A4, a pochi passi da casa. Arriva un'auto della vigilanza privata.

"Non può fotografare qui. E' un edificio comunale", dice la guardia.
"Va bene", dico io.
"Lo so, non ha senso. Come non ha senso il mio lavoro", dice la guardia.

Iniziamo a parlare mentre sono in posa B. Giovane guardia giurata, avrà la mia età. Mi racconta che da 4 anni fa questa vita, solo turno di notte "Perché non ho conoscenze", si giustifica.

Conveniamo che entrambi, nel proprio ruolo di cittadino e custode, siamo persone giudiziose.

"E per mangiare, come fa?", domando io.
"Ormai conosco i posti per i camionisti", risponde la guardia.

Mi chiedo come sia la sua vita, come e quando faccia l'amore, veda gli amici. Forse il pane è l'unica cosa che riesce a comprare ogni giorno.

"Io ora me ne vado", mi avverte la guardia come per dire: "Non mi deluda, non oltrepassi la recinzione".
"Tranquillo, io sto andando a dormire", rispondo, conscio di avere scelta.

Ogni tanto dovrei tenere chiusa questa boccaccia.

21 marzo 2005

Ritorno da Londra.




Mai innamorarsi delle proprie idee.

Così, rispetto a quanto postato la settimana scorsa prima di partire, devo rivedere alcuni pensieri.

  • Il cibo: invero, sono riuscito a mangiare un'inncoua e gustosa bistecca, cottura meduium, con contorno di patatine fritte e insalata, il tutto inaffiato da una Leffe. Lo so, nulla di originale o raffinato, ma meglio del pudding.
  • Le donne: complice la festa di St. Patrick e il tasso etilico, giovedì sera erano in molte per la strada, e mediamente giovani, cerine, longilinee, spesso eleganti, nei loro completi da ufficio. Folgorante l'incontro in un s e x y shop della p o r n o star T. Patrick. A un metro di sistanza è di una bellezza imbarazzante. Costo del DVD: 15 £.
  • Le automobili: qui confermo. La maggior parte delle auto inglesi fa schifo, ma ormai sono ridotte a tre modelli più il taxi, quel cassone nero a gasolio uguale per tutti. In compenso, grande viavai di BMW, Porsche e Audi. Deutscheland Uber Alles?

E aggiungo:

  • La tecnologia: si sa, avanti di anni rispetto a noi. A tarda sera sul Gatwick Express sono in molti a lavorare sul laptop o a leggere le email sul BlackBerry. Si può comprare il biglietto a bordo pagando con tutte le carte di credito, con assegni o contanti.
  • Le luci: forse è aumentata la mia sensibilità, ma direi che dalla mia ultima visita a Londra (circa un anno fa), l'illuminazione pubblica di alcune zone di pregio (es Covent Garden) è migliorata nettamente, dando grande enfasi all'architettura severa della città.

15 marzo 2005

Verso Londra.




Domani andrò a Londra -- gli orari British Airways mi permetteranno di dare un'occhiata in giro con relativa calma.

Londra, e quelle parti dell'Inghilterra che ho visitato, sono luoghi pieni di suggestione e di bellezza.

Invero, quello inglese è un popolo che da sempre si autoinfligge indicibili sofferenze.
  • Il cibo: la più alta manifestazione culinaria è la bistecca con patatine fritte.
  • Le donne: sotto i 20 sono volgari emule delle Spice Girls. Oltre i 20 sono il loro ingrassato ricordo.
  • La circolazione: sulla guida a destra è già stato detto tutto il possibile. Però non basta ancora.
  • Le automobili: eccezion fatta per la Mini e i grossi fuoristrada, la restante produzione Rover è imbarazzante.
  • Il gossip: è un Paese interamente dedito a farsi i fatti degli altri.
  • L'accento: provoca l'orticaria.
Ha il Regno Unito ancora qualche possibilità di salvezza? Riusciranno i suoi sudditi a servire in tavola un piatto di spaghetti al dente e senza ketchup?