A Fiumicino noleggio una Golf di colore chiaro. Me la danno al prezzo di una Fiat perché non ci sono Fiat a disposizione. Chiedo al banco del rent-a-car come si fa ad arrivare a Pomezia. E’ una bella ragazza sulla ventina, si intende di strade come io mi intendo di scherma. Con discrezione, le guardo le te*te. Ha due grosse te*te, non posso ignorarle.
Mi da una fotocopia e mi dice
Prendi per Roma, poi il Raccordo Anulare verso Napoli e all’uscita 26 la Pontina, non puoi sbagliare.
Cazzate. Potendo, sbaglierei la strada per andare al ce*so. Esco dal rent-a-car e mi metto in marcia. Piove. Non riesco a vedere le indicazioni. Una cartellone pubblicitario con la Marcuzzi mi distrae definitivamente. Mi fermo a un benzinaio. Vedendo arrivare una Golf nuova di zecca, il gestore sorride. Mi dispiace, ma ho solo bisogno di un’informazione. Storce la bocca, mi dice che ho sbagliato e che devo tornare indietro. Ci devo pensare.
Arriva un Freelander verde bottiglia. Al volante una signora sui quaranta. Colpi di sole, giacca con collo di pelliccia, trucco mat. Ha una bocca sensuale. Dal retrovisore non riesco a scorgere altro. Sono sicuro che la mente del benzinaio si è comodamente insinuata tra le sue cosce.
All’inizio degli anni ‘90 la Volkswagen ha adottato una politica retributiva originale nel mercato nell’automotive: un operaio specializzato Volkswagen guadagnava circa il doppio di un collega in Fiat, poteva avvalersi di un’assistenza sanitaria integrativa di tutto rispetto e di optare per la settimana cortissima di 35 ore. Tutti i dipendenti, operai, impiegati e quadri, che si recano al lavoro in auto, sono tenuti a farlo a bordo di una Volkswagen. Chi ha provato ad entrare con un’auto di un’altra marca nel parcheggio dello stabilimento di Wolfsburg, ha trovato sul parabrezza un biglietto con scritto semplicemente
Perché?
Faccio altri 40 km, con un paio di inversioni di marcia e una discreta riga di sacramenti. Non so come, mi trovo a Spinaceto. Con un nome così, mi immagino Braccio di Ferro che passeggia con Olivia.
Poi, miracolo. Pomezia nord.
Pomezia in realtà esiste solo in virtù di una grossa strada perennemente trafficata e polverosa. Difficile definirla un luogo. È piuttosto il confine labile tra il sogno di un miracolo produttivo e la realtà di uno squallore economicamente depresso.
So che devo cercare il Tucano, ma non so cos’è, questo Tucano.
Quando vedi il Tucano sei arrivato, dice la mail.
Grazie al caz*o, dico io.
Alla fine, vedo il Tucano. È un mobilificio a basso costo. Sul tetto ha tutte le bandiere del mondo, pure quella dell’URSS. A prima vista lo si può confondere con una sede dell’ONU.
Allora sono arrivato. È un basso prefabbricato tirato su in una manciata di ore. Raccapricciante, come piace a me. Varco la porta su cui sta appeso un foglio di carta con scritto il nome dell’azienda. Di grande aiuto per trovarla, non c’è che dire.
Se entri ad occhi chiusi, sembra di sentire la pioggia cadere, ma non è il ticchettio della pioggia, quello che senti. Sono settemila dita di settecento mani su trecentocinquanta tastiere che tic tic tic fanno non so che cosa. Non avevo ancora visto un customer care. I customer care abbassano l’età media del personale delle aziende. Quando ti assumono ti danno quelle brochure con scritto I
tuoi colleghi hanno in media 32 anni, ma per i corridoi vedi solo reperti da museo. Mistero svelato. Eccoli, i tuoi colleghi giovani.
I customer care vengono tenuti in luoghi lontani e non facilmente accessibili allo scopo frenare gli appetiti sessuali dei dipendenti sotto i quarant’anni. Oltre quest’età, si ha l’amante fissa (fisso) oppure i tessuti erettili sono di gran lunga meno reattivi (per le signore, la prossimità della menopausa fa pensare di più ai figli che all’orgasmo).
Passo per la sala e sfioro corpi bellissimi e stremati da turni da minatori. Si fanno tre turni consecutivi per coprire le 24 ore, e nel turno di notte si riduce il personale. Così rimangono solo una settantina di ragazzi incatenati ai loro asettici box, alle cuffie, ai monitor. Chissà se durante le pause dal videoterminale organizzano incontri clandestini nelle toilette pulitissime.
Entro nell’aula di formazione. Davanti a me sono una ventina. Una classe. T-shirt con scritto
Qualcosa. Ragazze. Stivali neri con tacchi disperatamente sottili, seni cresciuti da diete iperproteiche, gomme da masticare. Ho un’ora di ritardo. Sono accaldato, il mio deficit glicemico tiene a bada il testosterone, anche se fatico a tenere lontano lo sguardo dai molti, invitanti decolleté.
Dico il mio nome, lo scrivo sulla flipchart come nei college movies, cerco di sorridere, racconto che mi sono perso. Tutti vogliono sapere dove. Mai dirlo. Prima, faccio la figura del cretino. Secondo, me lo chiederanno di nuovo.
Mi tolgo la giacca, mi slaccio la cravatta. La Caporetto dell’eleganza. Parlo per due ore, la butto sullo scherzo, ironizzo, va tutto bene. Occhi sgranati. Provateci voi a strappare una risata parlando di un router.
Voglio fare una doccia e bere una tazza di caffè e mangiare quei biscotti enormi che si comprano al Dì per Dì, anche se è sera.
Un angelo del Signore fa venire le sei. Non avrei resistito oltre. Missione compiuta.
Una studentessa mi saluta, dandomi del lei. Sì, sì. Arrivederci. Le squilla il telefono. Sorride e dice
Ciao, amo’! Sale sulla sua Clio nera. Il programma della serata me lo posso immaginare.
La Golf mi strizza gli occhi quando disattivo l’antifurto dal telecomando.
Posso finalmente sdraiarmi su un enorme letto dell’Holiday Inn e tentare di vedere i canali por*o della pay tv facendoli addebitare sul conto di un’altra camera.