18 febbraio 2004
Paesaggio dal finestrino.
Treno per Milano. Accanto a me una donna sui 40 - avvocato, tailleur Chanel, scarpe Pollini, anelli vistosi a tutte le dita fuorché all’anulare sinistro, codice civile aperto sulle gambe.
Fa una telefonata dietro all’altra, sbraitando ordini a segretarie vere o presunte, cazziando collaboratori negligenti, raccontando le proprie prodezze, di come ha fatto un culo così alla pubblica accusa e al giudice, di come sono tutti stronzi e di come solo lei sa far vincere un cliente.
Cerco di immaginarmi il suo orgasmo più recente. Simulato, dieci anni fa, con il socio anziano dello studio. Vero, vent'anni fa, con uno studente della facoltà di giurisprudenza, più giovane di lei di un anno.
Mi innervosisce. Fa rumore, con tutti quei braccialetti che tintinnano ai molti movimenti delle sue mani. La immagino intenta in qualche attività sessuale, perlopiù solitaria, appena ritmata dal respiro affannoso e dal tintinnio della sua appariscente e costosa gioielleria.
Ho voglia di alzarmi e toglierle il fondotinta con un kleenex. Non so perché, le sorrido. Lei neanche se ne accorge.
Salgono. Scendono. Io osservo tutti cercando qualche tratto delle loro vite. Passa cinguettando una comitiva di donne over 60. Parlano di qualche mostra di pittura. A voce alta, molto alta.
Sono orrende. Sembrano tanti corpi simili tenuti insieme da un'unica mente. Dicono andiamo in fondo così ci sediamo tutte insieme. Alcune sono vedove, e portano due fedi all’anulare.
In tutto ne conto otto con un foulard di seta leggera al collo. In tutto le dame squittenti sono tredici. Stimo pertanto che il 61.5% delle donne abitanti nel nord ovest sopra i 60 anni di età e con istruzione medio superiore (diploma di scuola media superiore o cultura universitaria) possiedono un foulard di seta leggera.
Lascio che sciamino via. Le seguo con uno sguardo indifferente che, di spalle, non possono notare.
Per la seconda volta, passa una giovane donna del personale viaggiante. Sotto i venticinque, ritengo. Il termine bigliettaia per designare la sua mansione non rende giustizia alla sua bellezza. Mi piace, nella sua uniforme blu-verde. È gentile, formale. È inesperta. Un collega anziano la sta affiancando. Mi domanda se il mio titolo di viaggio è già stato controllato. Le sorrido. Le mostro il biglietto già sforacchiato. Le guardo il petto. Immagino un seno elegante e sodo, sotto i vestiti della fornitura Trenitalia. Se ne accorge. Arrossisce e abbassa lo sguardo. Ringrazia, va oltre.
Faccio due passi.
Buoni, vecchi corridoi dei treni. Un cimiciaio. Impossibile sostituirli con qualcos'altro.
Uscendo dal bagno incrocio una ragazza mora, sui vent’anni. Parla al cellulare. Sembra alterata. Mi chino per allacciare una stringa che non ha alcun bisogno di essere allacciata ma che mi consente di origliare la conversazione alle sue spalle. …non mi interessa quello che vedi in quei film con i tuoi amici! Sei un maiale, uno schifoso! La prossima volta che ti presenti con quella… quella puttana… ti giuro che ti lascio!
Ho sentito abbastanza, posso lasciare la coppia ai propri litigi e tornare sui miei passi. Ho come l’impressione che nel giro di qualche giorno, finite le baruffe telefoniche, comprati un po’ di fiori e consumate un paio di cene in qualche ristorante per famiglie, le cose andranno a posto. Cambiare è così faticoso.
In tutto questo, attraversando quel lembo di terra brulla che da Torino mi porta in terra meneghina, mi scordo di guardare dal finestrino.
Chissà cosa mi sono perso.
Niente, immagino.
12 febbraio 2004
Fiumicino.
Mi piacciono le standiste, le promoter. Giovani, raggianti nelle loro improvvisate divise, completamente a digiuno di quello che stanno cercando di venderti - un palmare, l'ennesima carta di credito, una Lexus da quarantamila euro.
Se ho tempo prima dell'imbarco, non mi nego mai. Mi mostro interessato ad un servizio che uso da anni e che mi viene raccontato con cadenza romana e una serie di imprecisioni. Prendo depliant, compilo moduli con nomi di fantasia e li riconsegno con un sorriso. Credo che Giorgio Rocca Ruffini nato a Potenza e residente a Novara – il mio alter ego dal 1998 – abbia richiesto, negli ultimi anni, qualcosa come sei carte di credito, dieci fidelity card per frequent travellers, quattro nuovi contratti con compagnie telefoniche, non meno di cinque preventivi per case vacanze tra la Costa Azzurra e la Valtellina e un numero imprecisato di macchine per caffè da ufficio più relative cialde, bustine di zucchero e cucchiaini. Costa così poco regalare un sorriso che non importa se è finto.
Osservo sempre le loro giovani dita abbellite da impeccabili french manicure, su cui spesso splende un anello di fattura mediocre con un piccolo brillante.
Mi piace immaginarle tornare a casa, lavarsi, fare l'amore col proprio fidanzato (invariabilmente sulla trentina, diplomato, con capelli corti neri, scarpe Adidas ai piedi, e una Punto Sporting di seconda mano), addormentarsi nella penombra di una camera ancora piena di peluche e fotografie delle vacanze.
Mi collego ad un hot spot Wi-Fi col portatile. Sul sito di Secondamano pubblico un annuncio, ovviamente a nome Ditta Rocca Giorgio. Svuoto appartamenti e cantine, con o senza il vostro consenso. Telefonare ore pasti. Non c’è nessun controllo, l’annuncio viene pubblicato subito.
Cerco una toilette per urinare. La trovo. Ho una ventiquattrore e il laptop. Il pavimento sotto gli orinatoi sembra coperto di urina. Ho due valigie, due mani e un pisello. Devo scegliere se non sporcare le valigie e non pisciare, oppure se pisciare e posare le valigie. Opto per la terza via, le appoggio poco distante dall’urina. Ma è un pisciare poco soddisfacente, così preso dall'ansia del furto.
Un cittadino olandese ha fatto una fortuna brevettando un orinatoio che ha una mosca disegnata sul fondo, un poco a sinistra dei buchi in cui entra l'urina. L'istinto e' urinare sulla mosca. Il risultato è non urinare fuori. L’aeroporto internazionale di Amsterdam, il primo ad aver adottato questi nuovi orinatoi, ha potuto ridurre i turni quotidiani di pulizia nelle toilette degli uomini da sette a sei, con un risparmio del 9% circa sulle spese di appalto per le pulizie. L’indice di soddisfazione degli utenti maschi tra i 31 e i 50 anni intervistati dall’ufficio relazioni con il pubblico dell’aeroporto, è rimasto pressoché immutato. L'aeroporto JFK ha ridotto del 15% gli interventi programmati di pulizia delle toilette maschili adottando gli orinatoi con la mosca.
I bagagli mi indolenziscono le mani. Incrocio ancora un paio di standiste (Mazda RX3 con motore rotativo e American Express Alitalia).
Passano due ragazze sul metroeottanta. Aggressive, bellissime, imbarazzanti. Pelle abbronzata, forme in mostra, gioielli da Amex Platinum. Sembra che nemmeno si accorgano di essere in un luogo pubblico frequentato da altre persone.
Sento qualcuno in coda al checkin che mormora Aho, anvedi che bbone ‘ste letterine!
Io non seguo il jetset, quindi compio un atto di fede e le guardo allontanarsi.
Passano indifferenti, continuando a bisbigliare nei microfoni dei loro auricolari bluetooth. Presumibilmente con qualche calciatore che nel frattempo sta facendo i centonovanta sul raccordo a bordo di una Porsche.
(Intermezzo: il correttore automatico di Microsoft Word desidera a tutti i costi correggere il marchio Porsche con il termine Porche. Allievo entusiasta della fuzzy logic di Bart Kosko, posso supporre che l’intelligenza adattiva del mio word processor comprenda che sto scrivendo di due signore dai costumi sessuali disinibiti, e affianchi loro il termine che ritiene più appropriato.)
Mi consolo pensando che, appena sveglie al mattino, sono un po’ meno sexy. Anche solo di poco. Io, più o meno, mi sveglio come mi sono addormentato, e non sono costretto a camminare su quei tacchi per guadagnarmi da vivere.
Una volta tanto, mi sento in netto vantaggio.
05 febbraio 2004
Pomezia.
A Fiumicino noleggio una Golf di colore chiaro. Me la danno al prezzo di una Fiat perché non ci sono Fiat a disposizione. Chiedo al banco del rent-a-car come si fa ad arrivare a Pomezia. E’ una bella ragazza sulla ventina, si intende di strade come io mi intendo di scherma. Con discrezione, le guardo le te*te. Ha due grosse te*te, non posso ignorarle.
Mi da una fotocopia e mi dice Prendi per Roma, poi il Raccordo Anulare verso Napoli e all’uscita 26 la Pontina, non puoi sbagliare.
Cazzate. Potendo, sbaglierei la strada per andare al ce*so. Esco dal rent-a-car e mi metto in marcia. Piove. Non riesco a vedere le indicazioni. Una cartellone pubblicitario con la Marcuzzi mi distrae definitivamente. Mi fermo a un benzinaio. Vedendo arrivare una Golf nuova di zecca, il gestore sorride. Mi dispiace, ma ho solo bisogno di un’informazione. Storce la bocca, mi dice che ho sbagliato e che devo tornare indietro. Ci devo pensare.
Arriva un Freelander verde bottiglia. Al volante una signora sui quaranta. Colpi di sole, giacca con collo di pelliccia, trucco mat. Ha una bocca sensuale. Dal retrovisore non riesco a scorgere altro. Sono sicuro che la mente del benzinaio si è comodamente insinuata tra le sue cosce.
All’inizio degli anni ‘90 la Volkswagen ha adottato una politica retributiva originale nel mercato nell’automotive: un operaio specializzato Volkswagen guadagnava circa il doppio di un collega in Fiat, poteva avvalersi di un’assistenza sanitaria integrativa di tutto rispetto e di optare per la settimana cortissima di 35 ore. Tutti i dipendenti, operai, impiegati e quadri, che si recano al lavoro in auto, sono tenuti a farlo a bordo di una Volkswagen. Chi ha provato ad entrare con un’auto di un’altra marca nel parcheggio dello stabilimento di Wolfsburg, ha trovato sul parabrezza un biglietto con scritto semplicemente Perché?
Faccio altri 40 km, con un paio di inversioni di marcia e una discreta riga di sacramenti. Non so come, mi trovo a Spinaceto. Con un nome così, mi immagino Braccio di Ferro che passeggia con Olivia.
Poi, miracolo. Pomezia nord.
Pomezia in realtà esiste solo in virtù di una grossa strada perennemente trafficata e polverosa. Difficile definirla un luogo. È piuttosto il confine labile tra il sogno di un miracolo produttivo e la realtà di uno squallore economicamente depresso.
So che devo cercare il Tucano, ma non so cos’è, questo Tucano. Quando vedi il Tucano sei arrivato, dice la mail. Grazie al caz*o, dico io.
Alla fine, vedo il Tucano. È un mobilificio a basso costo. Sul tetto ha tutte le bandiere del mondo, pure quella dell’URSS. A prima vista lo si può confondere con una sede dell’ONU.
Allora sono arrivato. È un basso prefabbricato tirato su in una manciata di ore. Raccapricciante, come piace a me. Varco la porta su cui sta appeso un foglio di carta con scritto il nome dell’azienda. Di grande aiuto per trovarla, non c’è che dire.
Se entri ad occhi chiusi, sembra di sentire la pioggia cadere, ma non è il ticchettio della pioggia, quello che senti. Sono settemila dita di settecento mani su trecentocinquanta tastiere che tic tic tic fanno non so che cosa. Non avevo ancora visto un customer care. I customer care abbassano l’età media del personale delle aziende. Quando ti assumono ti danno quelle brochure con scritto I tuoi colleghi hanno in media 32 anni, ma per i corridoi vedi solo reperti da museo. Mistero svelato. Eccoli, i tuoi colleghi giovani.
I customer care vengono tenuti in luoghi lontani e non facilmente accessibili allo scopo frenare gli appetiti sessuali dei dipendenti sotto i quarant’anni. Oltre quest’età, si ha l’amante fissa (fisso) oppure i tessuti erettili sono di gran lunga meno reattivi (per le signore, la prossimità della menopausa fa pensare di più ai figli che all’orgasmo).
Passo per la sala e sfioro corpi bellissimi e stremati da turni da minatori. Si fanno tre turni consecutivi per coprire le 24 ore, e nel turno di notte si riduce il personale. Così rimangono solo una settantina di ragazzi incatenati ai loro asettici box, alle cuffie, ai monitor. Chissà se durante le pause dal videoterminale organizzano incontri clandestini nelle toilette pulitissime.
Entro nell’aula di formazione. Davanti a me sono una ventina. Una classe. T-shirt con scritto Qualcosa. Ragazze. Stivali neri con tacchi disperatamente sottili, seni cresciuti da diete iperproteiche, gomme da masticare. Ho un’ora di ritardo. Sono accaldato, il mio deficit glicemico tiene a bada il testosterone, anche se fatico a tenere lontano lo sguardo dai molti, invitanti decolleté.
Dico il mio nome, lo scrivo sulla flipchart come nei college movies, cerco di sorridere, racconto che mi sono perso. Tutti vogliono sapere dove. Mai dirlo. Prima, faccio la figura del cretino. Secondo, me lo chiederanno di nuovo.
Mi tolgo la giacca, mi slaccio la cravatta. La Caporetto dell’eleganza. Parlo per due ore, la butto sullo scherzo, ironizzo, va tutto bene. Occhi sgranati. Provateci voi a strappare una risata parlando di un router.
Voglio fare una doccia e bere una tazza di caffè e mangiare quei biscotti enormi che si comprano al Dì per Dì, anche se è sera.
Un angelo del Signore fa venire le sei. Non avrei resistito oltre. Missione compiuta.
Una studentessa mi saluta, dandomi del lei. Sì, sì. Arrivederci. Le squilla il telefono. Sorride e dice Ciao, amo’! Sale sulla sua Clio nera. Il programma della serata me lo posso immaginare.
La Golf mi strizza gli occhi quando disattivo l’antifurto dal telecomando.
Posso finalmente sdraiarmi su un enorme letto dell’Holiday Inn e tentare di vedere i canali por*o della pay tv facendoli addebitare sul conto di un’altra camera.
29 gennaio 2004
Spazio aereo.
Non ho paura di volare. Soffro solo lo schiacciamento dovuto alla spinta propulsiva al momento del decollo. Non è paura.
Molto più di un incidente aereo, che – come è noto – dura una manciata di secondi e non lascia superstiti né speranze, temo i ciccioni, gli obesi, i passeggeri sovrappeso.
Al checkin chiedo sempre Corridoio, grazie e cerco di salire tra i primi. Scannerizzo il corridoio centrale dell’A321 tentando di indovinare chi si siederà alla mia sinistra, quanto posto occuperà, quante volte mi farà alzare per prendere un libro o il giornale eccetera.
È il paradosso del volo: nell’immensità del cielo, la risorsa più scarsa è lo spazio.
Gli aeroporti dei Paesi Occidentali (Europa allargata, USA e Canada) sono il non-luogo con il maggior numero per metro quadrato di donne ritenute universalmente attraenti, ovvero, secondo la definizione di un famoso Ente di standardizzazione, …sane, in età fertile, con tratti fisico-somatici proporzionati e armoniosi, e abbigliate con decoro e gusto confacenti alla moda e ai modelli prevalenti nelle comunità sociali di appartenenza. La presente definizione esclude recisamente hippies, etniche, alternative ed emule delle Spice Girls.
Negli aeroporti, questo valore si attesta mediamente intorno allo 0.069, ovvero circa sette donne con i suesposti requisiti fisici in un’area di cento metri quadrati. Per esemplificare il dato, pensate di vivere in un bilocale insieme a quattro donne che vi portereste volentieri a letto. Notevole, no?
Nonostante la situazione favorevole, ho sempre viaggiato accanto a ciccioni rumorosi e maleodoranti. Eppure, ogni dannata volta in cui mi siedo su quelle poltrone, giro mentalmente il film in cui una donna bellissima si siede accanto a me, e immagino con precisione i piccoli rituali da inscenare (formule di cortesia, sorrisi, un’aria formale, distaccata ma disponibile) per rendere piacevoli i cinquanta minuti di volo e i venticinque di attesa per sbarcare.
Di solito il film prosegue con la insperata nascita di una reciproca simpatia, lo scambio dei numeri di telefono, e una cena romantica di due solitudini in viaggio in una città inospitale.
Poi ci sono i finali. Ne ho pronti una mezza dozzina, uno per genere cinematografico:
- c’è il fantapolitico (lei in realtà è una bellissima spia del SISDE e nella sua ventiquattrore ci sono le lettere di Moro);
- il noir (si svela una fitta serie di misteri, sparizioni, tradimenti e omicidi passionali da cui sta fuggendo);
- il grottesco almodovariano (si spoglia, e scopro appena in tempo che tra le gambe siamo molto più uguali di quanto potessi immaginare);
- l’horror (colto da un raptus, la uccido a mani nude e ne getto il cadavere in una discarica della Magliana);
- il porno (si finisce invariabilmente a letto con dialoghi tipo Oh yeah babe); il fantascientifico (grattandosi il viso, si scopre la pelle verde e squamosa).
Nel rollio percettibile della carlinga imparo a mie spese il confine tra sperare ed esprimere un desiderio.
22 gennaio 2004
Verso Caselle.
Sono le 18 di un mercoledì di novembre. Un taxi bianco, forse una Marea, forse una Opel, mi sta portando in aeroporto. Il tassista sbraita contro certi suoi colleghi, rei di portare abbigliamento indecoroso o di fumare durante le corse. Di tanto in tanto faccio un cenno del capo, giusto per dargli soddisfazione. Ci fermiamo a un semaforo. Sul marciapiede a fianco, una ragazza giovanissima attende clienti. È bionda, ha lineamenti duri e attraenti. Non ha un abbigliamento volgare o appariscente. Il contenuto della sua borsetta – due telefoni cellulari, spray antirapina non omologato in Italia, kleenex, preservativi, rossetto e un rotolo di biglietti da venti – tradisce la normalità delle sue vesti. Il taxi, borbottando, riparte. Mi giro. Subito, un cliente si ferma. Ha una 156 azzurra. Lei si china sul finestrino. Parlano.
In Via Reiss Romoli, alla periferia nord di Torino, c'è una grossa fabbrica di serramenti. Il proprietario dell'impresa, in un impeto di onnipotenza, ha fatto costruire una torretta alta una dozzina di metri che termina con la scritta, visibile a parecchia distanza e illuminata da faretti alogeni, Io sono il tuo serramento. Penso a una jihad tra la fazione illuminata del serramento in alluminio e gli oscurantisti della finestra tradizionale, in legno trattato con impregnante.
La corsa prosegue. Il tassista prova a fregarmi, e allunga un po’ il giro. Me ne accorgo, e non mi importa. Almeno vedo qualche scorcio nuovo.
Il fascino delle periferie è stato cantato, esaltato e lodato così tante volte da intellettuali e giornalisti comodamente sprofondati nelle loro poltrone di appartamenti in centro, che il mio animo è preso da una irrefrenabile pulsione di sincerità. È tutto falso. Le periferie non hanno alcun fascino. Le periferie fanno cagare, e basta. Ora sto meglio.
Semaforo. Una Lancia Y bianca affianca il mio taxi. Alla guida una ragazza. Piacevole, ben proporzionata. Direi studentessa, a occhio e croce. Intravedo sul sedile posteriore una pila di fotocopie rilegate e un’agenda Filofax. Bingo. Si accende una sigaretta, regola il volume della radio. Il suo piercing al naso, sollecitato dai fari delle auto che provengono in senso opposto, luccica nel buio dell’abitacolo. Gode della libertà impagabile di tutti gli studenti universitari. Immagino il suo ragazzo che va a trovarla a casa, dopocena. Brevi, rapidi convenevoli con la famiglia. Si chiudono in camera. Accendono lo stereo, un impianto hifi giapponese di fascia bassa, con diffusori in ABS.
Cercando di non fare troppo rumore, cominciano con un po’ di petting. Lei lo ferma quasi subito, dice ho le mie cose. Lui fa un sorriso, dice non ha importanza, ma non desiste. Lei capisce che cosa ha in mente. Pensa i ragazzi sono tutti uguali. In silenzio, diligente, comincia a sbottonargli i pantaloni.
Il semaforo diventa verde. Mi riprendo i miei pensieri mentre il taxi avanza nel traffico, fino alla meta.
L’aeroporto di Torino Caselle è dedicato a Sandro Pertini – che, per quanto ne so, non ha avuto particolari meriti nella storia dell’aviazione. Le impiegate ai banchi accettazione di Alitalia, British Airways e Lufthansa (completo giacca pantalone austero, tacchi non alti ma eleganti, trucco impeccabile anche alle dieci di sera, immancabile foulard di seta al collo) compensano a malapena la visione d’insieme di questo squallido aeroporto in cui i cartelloni pubblicitari hanno una vita superiore ai prodotti e alle aziende che pubblicizzano.
Per effettuare il checkin, scelgo sempre l’impiegata più attraente, anche se devo fare più coda. Ho rischiato di perdere più di un volo, per questo.
Arriva il mio turno. Sono gentile, manierato, formale, do sempre del lei. Dico Buonasera, signora. Dopo schiere di frettolosi e ineducati passeggeri che gettano sul bancone biglietto e fidelity card senza smettere di parlare al cellulare, cerco di essere un uomo d’altri tempi, fino a strappare a queste mistress del traffico aereo un sorriso complice, talvolta sensuale. Non si può costruire una conoscenza carnale in meno di cinque minuti, ma l’imperativo etico che mi sta a cuore è avvicinarmi il più possibile ad essa.
Nel brusio di fondo annunciano il ritardo del mio volo. Rigiro tra le mani la carta di imbarco, e mi domando quanto saranno ingombranti e rumorosi i miei vicini di poltrona.
Una hostess, passando, si sistema una calza scoprendo la gamba fino a metà coscia.
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