14 maggio 2010
13 maggio 2010
Quanto petrolio c'è in mare?
Inserisci il valore che vuoi, intanto nessuno sa veramente quanto greggio esce dal pozzo e quanto se ne disperde nel Golfo del Messico (via PBS).
Per rendersi conto delle dimensioni della tragedia l'eccezionale, basta guardare l'eccezionale (come sempre, d'altronde) reportage pubblicato in The Big Picture del Boston Globe.
Copyright REUTERS/Daniel Beltra
03 maggio 2010
Quincinetto, Stra di Ciapii
clicca per visualizzare l'album di foto
Poco fuori Quincinetto, dall'autostrada A5 Aosta Torino in direzione sud, è possibile scorgere un piccolo villaggio rurale con case e manufatti in pietra, apparentemente abbandonato.
Attratto da quel luogo, sempre scorto di passaggio dal finestrino dell'auto, ho deciso di visitarlo di persona e di fare un breve reportage fotografico. Ho scoperto che è il toponimo è Via dei Chiappetti o Stra di Ciapii, ed è la strada che porta alla centrale idroelettrica di Quincinetto.Sotto una pioggia insistente e per nulla aiutato da una luce lattiginosa, ho messo insieme qualche scatto in questo album.
26 aprile 2010
Caldirola Downhill & Bike Park.
Fantastica domenica al bike park di Caldirola con qualche amico che mi ha dispensato pazientemente utili consigli per migliorare nella tecnica della discesa.
E' stata un'esperienza esaltante perché era la prima volta che potevo provare tanti tracciati diversi e con molto tempo a disposizione. I tracciati sono quattro: 1 di freeride e 3 di downhill.
La situazione meteo è stata buona ma il sole non è stato sufficiente per asciugare il terreno che, in presenza di vegetazione, era molto umido, a tratti fangoso, quasi sempre smosso e coperto di foglie. Ma alla fine meglio così, è stato un ottimo allenamento per migliorarmi in velocità, curva, assaggi tecnici, ripidoni ecc.
Drop ancora copiati, per i salti non ho tutta questa fretta. La soddisfazione è stata rendersi conto dei miglioramenti progressivi dalla prima discesa (fiato corto, rigido come un bastone, le dita sempre sui freni) a fine gioranata quando cominciavo a scendere più sciolto e veloce. Quando, al secondo tentativo, ho azzeccato il "toboga" di saliscendi della DH2 oppure sono uscito da una curva stretta dopo un ripido senza finire a terra, avevo un sorriso da orecchia a orecchia. La traccia freeride è divertente perché tecnica, guidata, sempre in mezzo al bosco; ma anche le downhill le ho trovate stupende, e soprattutto hanno il vantaggio di portarti un po' più avanti, ad aumentare la velocità.
Ci sono ancora un sacco di situazioni che mi rendono insicuro, soprattutto drop e pedane. Ma giusto per citarne due.
La Stinky si è comportata egregiamente ma, man mano che la uso, mi rendo conto che dovrei intervenire in due o tre punti, a cominciare dal ritorno troppo veloce della forcella e dalla molla del Fox DHX che è troppo dura rispetto al mio peso.
Inutile dire che il livello di chi girava era altissimo, tra pro e dilettanti. Si vedevano passaggi e salti un po' oltre le leggi della fisica.
Forse l'unica pecca di Caldirola (manutenzione a parte, sono sicuro che ci penseranno) è il tratto finale sul praton, dove convergono i tracciati: c'è l'immissione in contropendenza su una pietraia che impegna non poco.
Ma è stato grandioso al 100%, soprattutto la compagnia. E ovviamente non poteva mancare l'album fotografico. Qui sotto qualche preview.
E' stata un'esperienza esaltante perché era la prima volta che potevo provare tanti tracciati diversi e con molto tempo a disposizione. I tracciati sono quattro: 1 di freeride e 3 di downhill.
La situazione meteo è stata buona ma il sole non è stato sufficiente per asciugare il terreno che, in presenza di vegetazione, era molto umido, a tratti fangoso, quasi sempre smosso e coperto di foglie. Ma alla fine meglio così, è stato un ottimo allenamento per migliorarmi in velocità, curva, assaggi tecnici, ripidoni ecc.
Drop ancora copiati, per i salti non ho tutta questa fretta. La soddisfazione è stata rendersi conto dei miglioramenti progressivi dalla prima discesa (fiato corto, rigido come un bastone, le dita sempre sui freni) a fine gioranata quando cominciavo a scendere più sciolto e veloce. Quando, al secondo tentativo, ho azzeccato il "toboga" di saliscendi della DH2 oppure sono uscito da una curva stretta dopo un ripido senza finire a terra, avevo un sorriso da orecchia a orecchia. La traccia freeride è divertente perché tecnica, guidata, sempre in mezzo al bosco; ma anche le downhill le ho trovate stupende, e soprattutto hanno il vantaggio di portarti un po' più avanti, ad aumentare la velocità.
Ci sono ancora un sacco di situazioni che mi rendono insicuro, soprattutto drop e pedane. Ma giusto per citarne due.
La Stinky si è comportata egregiamente ma, man mano che la uso, mi rendo conto che dovrei intervenire in due o tre punti, a cominciare dal ritorno troppo veloce della forcella e dalla molla del Fox DHX che è troppo dura rispetto al mio peso.
Inutile dire che il livello di chi girava era altissimo, tra pro e dilettanti. Si vedevano passaggi e salti un po' oltre le leggi della fisica.
Forse l'unica pecca di Caldirola (manutenzione a parte, sono sicuro che ci penseranno) è il tratto finale sul praton, dove convergono i tracciati: c'è l'immissione in contropendenza su una pietraia che impegna non poco.
Ma è stato grandioso al 100%, soprattutto la compagnia. E ovviamente non poteva mancare l'album fotografico. Qui sotto qualche preview.
Pronti per salire.
La seggiovia.
L'ultima neve!
Pausa pranzo.
Foto di gruppo con bici.
24 aprile 2010
20 aprile 2010
Vivere ogni giorno l'incertezza della crisi.
Le sezioni finanziarie dei giornali di oggi lasciano poco spazio all'immaginazione e molto alla paura. Ed è solo un nuovo capitolo di una storia che non sembra avere altra conclusione che la fine di quel tessuto produttivo italiano che è stato per anni l'opportunità e l'orgoglio di un Paese. Repubblica aggiorna periodicamente il bollettino di guerra di licenziamenti, chiusure e disoccupazione. Sotto le bombe della cosiddetta crisi cadono centinaia di posti di lavoro alla settimana e, soprattutto, perisce un intero sistema industriale e produttivo.
Diventeremo un Paese di inoccupati senza speranza, dediti ad un triste commercio (cui segue il baratto) di beni importati (perché nel frattempo avremo smesso di produrli), strangolati dal cancro del credito al consumo con cui una parte della popolazione, per qualche anno, si è sentita più ricca e libera. Noi.
Loro no. Non accadrà all'elite della vorace classe dirigente che ha senz'altro approfittato della crisi del credit crunch per aumentare i propri personalissimi profitti a danno dei redditi delle famiglie; che ha senz'altro contribuito alla polverizzazione di un tessuto capace di innovare, produrre, adattarsi e reagire. Perché a leggere le cronache di fallimenti e chiusure, da uomo della strada capisco che il conto lo stanno pagando sempre e comunque gli ultimi anelli dell'infame catena. Nemmeno per un istante si pone il dubbio se davvero proprietà e management di tante piccole e medie imprese abbiano agito negli interessi di aziende che sono fatte di persone, cultura, famiglie. Mai.
Quando nell'ottobre del 2008 è iniziata la grande (imprevedibile?) crisi finanziaria, l'uomo della strada, sempre lui, quel poco che ha capito è che grande parte della responsabilità di una situazione che sarebbe precipitata da lì a poco era da attribuirsi alle banche. Banche che hanno chiuso (in pochissimi casi, e sempre a danno degli impiegati dacché il top management si è ingrassato), banche che hanno ottenuto aiuti governativi (quindi con le tasse di quella che un tempo lontano fu la classe media), banche che dopo qualche titolo in prima pagina hanno ricominciato ad agire senza che alcuno di quei controlli reclamati a gran voce sia stato effettivamente messo in atto. Tutta colpa delle banche? L'uomo della strada questo dubbio ce l'ha. Ma se guardiamo al bollettino di guerra, sono solo gli altri a rimetterci: imprese in sofferenza, piccole ditte artigianali. Poi ci sono altri casi, che hanno tanto l'aria di essere un pretesto per tagliare costi ed arricchirsi ulteriormente, anche se le cose continuano ad andare bene o benino: e qui la delocalizzazione in Cina è la parola d'ordine, una brillante strategia industriale che lascia a casa le famiglie e le loro vite.
E anche chi un lavoro ancora ce l'ha (ma non appartiene ad elite né club né reti di amici di amici) vive e lavora ogni giorno con la paura che sia l'ultimo e che il successivo sia solo una lettera sulla scrivania che dice: ci dispiace, è la crisi, è il mercato. E di trovarsi in un Paese ormai privo di aziende grandi o piccole. Solo banche e commercio che si gonfia nei centri commerciali e che, ci scommetto, prima o poi si trascina nel baratto.
Per chi ha la tessera del club e della rete di amici di amici, qualcosa ci sarà sempre. Per gli altri, che però sono un po' di più, ci sarà poco. Così poco da poter stare tutto in una valigia.
Diventeremo un Paese di inoccupati senza speranza, dediti ad un triste commercio (cui segue il baratto) di beni importati (perché nel frattempo avremo smesso di produrli), strangolati dal cancro del credito al consumo con cui una parte della popolazione, per qualche anno, si è sentita più ricca e libera. Noi.
Loro no. Non accadrà all'elite della vorace classe dirigente che ha senz'altro approfittato della crisi del credit crunch per aumentare i propri personalissimi profitti a danno dei redditi delle famiglie; che ha senz'altro contribuito alla polverizzazione di un tessuto capace di innovare, produrre, adattarsi e reagire. Perché a leggere le cronache di fallimenti e chiusure, da uomo della strada capisco che il conto lo stanno pagando sempre e comunque gli ultimi anelli dell'infame catena. Nemmeno per un istante si pone il dubbio se davvero proprietà e management di tante piccole e medie imprese abbiano agito negli interessi di aziende che sono fatte di persone, cultura, famiglie. Mai.
Quando nell'ottobre del 2008 è iniziata la grande (imprevedibile?) crisi finanziaria, l'uomo della strada, sempre lui, quel poco che ha capito è che grande parte della responsabilità di una situazione che sarebbe precipitata da lì a poco era da attribuirsi alle banche. Banche che hanno chiuso (in pochissimi casi, e sempre a danno degli impiegati dacché il top management si è ingrassato), banche che hanno ottenuto aiuti governativi (quindi con le tasse di quella che un tempo lontano fu la classe media), banche che dopo qualche titolo in prima pagina hanno ricominciato ad agire senza che alcuno di quei controlli reclamati a gran voce sia stato effettivamente messo in atto. Tutta colpa delle banche? L'uomo della strada questo dubbio ce l'ha. Ma se guardiamo al bollettino di guerra, sono solo gli altri a rimetterci: imprese in sofferenza, piccole ditte artigianali. Poi ci sono altri casi, che hanno tanto l'aria di essere un pretesto per tagliare costi ed arricchirsi ulteriormente, anche se le cose continuano ad andare bene o benino: e qui la delocalizzazione in Cina è la parola d'ordine, una brillante strategia industriale che lascia a casa le famiglie e le loro vite.
E anche chi un lavoro ancora ce l'ha (ma non appartiene ad elite né club né reti di amici di amici) vive e lavora ogni giorno con la paura che sia l'ultimo e che il successivo sia solo una lettera sulla scrivania che dice: ci dispiace, è la crisi, è il mercato. E di trovarsi in un Paese ormai privo di aziende grandi o piccole. Solo banche e commercio che si gonfia nei centri commerciali e che, ci scommetto, prima o poi si trascina nel baratto.
Per chi ha la tessera del club e della rete di amici di amici, qualcosa ci sarà sempre. Per gli altri, che però sono un po' di più, ci sarà poco. Così poco da poter stare tutto in una valigia.
15 aprile 2010
E adesso ammazzateci tutti.
Sta per passare un emendamento che permetterà, con il consenso delle Regioni (e vuoi che si facciano scappare un'occasione di tirare su un po' di soldi?), di estendere il epriodo dell'attività venatoria. In parole povere, caccia tutto l'anno.
Non sono un animalista intransigente né un vegetariano, ma negli anni ho maturato un certo disprezzo per la caccia, che mi sembra sempre più una manifestazione crudele e fine a se stessa. Privata del suo antico alone
di magia (il procacciamento del cibo, la sfida dell'uomo sulle fiere), oggi mi sembra del tutto insensata. Così come mi sembra ipocrita e pretestuoso legarla ad azioni di riequilibrio della fauna boschiva. Per la serie: sparate perché ci sono troppi fagiani. Ma quando mai: la natura si sa regolare benissimo da sola senza bisogno di doppiette e tagliole.
I coltivatori si lamentano perché i cinghiali rovinano nottetempo l'orticello? Innanzitutto, gli orti sorgono dove prima vivevano i cinghiali, quindi c'erano prima loro. E se le loro incursioni disturbano, magari sarebbe più facile mettere una recinzione seria che non sia la solita rete di un letto (quella non deturpa il paesaggio, vero?)
Lo scorso autunno mentre praticavo freeride sulla collina con un gruppo di persone, ci siamo dovuti fermare perché i soliti sanguinari stavano inseguendo un "pericoloso" esemplare di cinghiale, che è stato prontamente abbattutto a fucilate a un metro dai miei piedi. Una scena che avrei preferito non vedere: quel mammifero rantolante mi sembrava tutto tranne che pericoloso. Solo spaventato e sfortunato. E se lui è pericoloso, che si può dire dei gruppi di cacciatori abbattuti da fuoco amico in sciagurati incidenti? Si muore eccome, ma naturalmente per i diretti interessati sono conseguenze risibili (rispetto ai morti per incidenti stradali; paragone di indubbia pertinenza).
La caccia genera un bel business tra licenze ed equipaggiamento. Non siamo negli USA, ma anche da noi i produttori di armi sono gruppi dotati di una grande influenza sul governo. Una liberalizzazione sfrenata della caccia porterebbe solo ad un disastro ambientale e all'aumento degli incidenti, che sono morti e feriti, non solo tra i cacciatori.
La prossima escursione tra i boschi, a piedi o in bici, dovremo affrontare un altro pericolo?
Non sono un animalista intransigente né un vegetariano, ma negli anni ho maturato un certo disprezzo per la caccia, che mi sembra sempre più una manifestazione crudele e fine a se stessa. Privata del suo antico alone
di magia (il procacciamento del cibo, la sfida dell'uomo sulle fiere), oggi mi sembra del tutto insensata. Così come mi sembra ipocrita e pretestuoso legarla ad azioni di riequilibrio della fauna boschiva. Per la serie: sparate perché ci sono troppi fagiani. Ma quando mai: la natura si sa regolare benissimo da sola senza bisogno di doppiette e tagliole.
I coltivatori si lamentano perché i cinghiali rovinano nottetempo l'orticello? Innanzitutto, gli orti sorgono dove prima vivevano i cinghiali, quindi c'erano prima loro. E se le loro incursioni disturbano, magari sarebbe più facile mettere una recinzione seria che non sia la solita rete di un letto (quella non deturpa il paesaggio, vero?)
Lo scorso autunno mentre praticavo freeride sulla collina con un gruppo di persone, ci siamo dovuti fermare perché i soliti sanguinari stavano inseguendo un "pericoloso" esemplare di cinghiale, che è stato prontamente abbattutto a fucilate a un metro dai miei piedi. Una scena che avrei preferito non vedere: quel mammifero rantolante mi sembrava tutto tranne che pericoloso. Solo spaventato e sfortunato. E se lui è pericoloso, che si può dire dei gruppi di cacciatori abbattuti da fuoco amico in sciagurati incidenti? Si muore eccome, ma naturalmente per i diretti interessati sono conseguenze risibili (rispetto ai morti per incidenti stradali; paragone di indubbia pertinenza).
La caccia genera un bel business tra licenze ed equipaggiamento. Non siamo negli USA, ma anche da noi i produttori di armi sono gruppi dotati di una grande influenza sul governo. Una liberalizzazione sfrenata della caccia porterebbe solo ad un disastro ambientale e all'aumento degli incidenti, che sono morti e feriti, non solo tra i cacciatori.
La prossima escursione tra i boschi, a piedi o in bici, dovremo affrontare un altro pericolo?
11 aprile 2010
Prima uscita con la Stinky.
Aprofittando della giornata di sole e di un passaggio alla basilica di Superga, ieri mattina ho fatto il primo giretto out of the bounds con la mia Stinky. Per stare sul facile, ho scelto il classicissimo 28-29 (qualche difficioltà nel primo tratto, più liscio e scorrevole la parte finale).
In sintesi, il montaggio direi che è stato corretto e il mezzo è affidabile: frenata pronta, rumoracci zero, giusto qualche fischio al posteriore negli ultimi metri. Ho patito un po' le curve a gomito e le scalette, ma ho prosaicamente poggiato le chiappe a terra una sola volta. Altra lacuna tecnica, i saliscendi: con sella abbassata, è dura fare tratti in salita. A conti fatti, sono stato più bravo come meccanico che come rider. Ma andrà meglio. Il mezzo mi fa sentire a mio agio, forcella e ammortizzatore lavorano degnamente ed è bello sapere che a terra ci stanno due gommone finlandesi con un bel po' di grip.
Foto: il tratto iniziale del sentiero 28 della GTC.
In sintesi, il montaggio direi che è stato corretto e il mezzo è affidabile: frenata pronta, rumoracci zero, giusto qualche fischio al posteriore negli ultimi metri. Ho patito un po' le curve a gomito e le scalette, ma ho prosaicamente poggiato le chiappe a terra una sola volta. Altra lacuna tecnica, i saliscendi: con sella abbassata, è dura fare tratti in salita. A conti fatti, sono stato più bravo come meccanico che come rider. Ma andrà meglio. Il mezzo mi fa sentire a mio agio, forcella e ammortizzatore lavorano degnamente ed è bello sapere che a terra ci stanno due gommone finlandesi con un bel po' di grip.
Foto: il tratto iniziale del sentiero 28 della GTC.
09 aprile 2010
Colin Thubron, Il cuore perduto dell'Asia.
Mentre concludo la lettura delle ultime pagine de Il cuore perduto dell'Asia, il Boston Globe pubblica sull'inserto The Big Picture un eccezionale reportage fotografico sulla rivolta in Kyrgyzstan in corso in questi giorni.
Thubron ha intrapreso un lungo viaggio nell'Asia centrale attraversando cinque Paesi ad un anno dalla loro indipendenza da Mosca. Muovendosi a bordo dei mezzi più disparati e in compagnia di amici pittoreschi, l'autore racconta la millenaria storia di popoli migratori e di terre intrise di sangue, violenza e magnifica cultura; ma descrive anche una situazione sociale chegià quindici anni fa si preannunciava drammatica, esplosiva.
I personaggi incontrati in villaggi, città e santuari sembrano muoversi sul tragico palcoscenico di una sterminata umanità ormai orfana dei propri valori e privata dei punti di riferimento, e ridotta al soddisfacimento di pochi bisogni primari.
Con il consueto stile elegante, Thubron ci racconta le epiche imprese di Tamerlano, le migrazioni di popolazioni nomadi dalla Mongolia, la strenua resistenza delle religioni, musulmana in particolare, durante lo stalinismo. Laddove lingue, tradizioni, fede e culture si intrecciano resistendo alle dittature e alle guerre, i confini politici tracciati dall'impero sovietico si fanno labili, e sono l'umanità e il senso di appartenenza a stabilire dove finisce un mondo e ne inizia un altro. L'approccio oggettivo, neutro, tutt'altro che etnocentrico dell'autore non impedisce di mettere in luce le snervanti fragilità di popoli fiaccati da un susseguirsi di regimi corrotti e la potenziale pericolosità di dogmi religiosi e mistici ben radicati nei punti più remoti di questa immensa terra.
Ma sono la povertà e la progressiva distruzione di qualunque capacità produttiva (industriale, agricola, artigianale) ad esasperare la situazione sia nelle grandi città, un tempo risplendenti crogioli di culture e oggi abbandonate a se stesse, che negli sperduti villaggi verso il confine con la Cina.
Gli avvenimenti a cui oggi assistiamo ne sono, a distanza di poco più di un decennio, una tragica e prevedibile testimonianza.
Il cuore perduto dell'Asia è un libro eccellente, a tratti perfino leggero tanto da sollevarci lo spirito immerso nella tragedia di una terra che è quasi un continente a sé, ma sempre equilibrato. Una lettura che consiglio vivamente, come il già recensito In Siberia.
Colin Thubron
Il cuore perduto dell'Asia
Trad. di A. Cogolo
pp. 402
TEA Avventure, Prima edizione 2009
ISBN 978-88-502-1868-4
Thubron ha intrapreso un lungo viaggio nell'Asia centrale attraversando cinque Paesi ad un anno dalla loro indipendenza da Mosca. Muovendosi a bordo dei mezzi più disparati e in compagnia di amici pittoreschi, l'autore racconta la millenaria storia di popoli migratori e di terre intrise di sangue, violenza e magnifica cultura; ma descrive anche una situazione sociale chegià quindici anni fa si preannunciava drammatica, esplosiva.
I personaggi incontrati in villaggi, città e santuari sembrano muoversi sul tragico palcoscenico di una sterminata umanità ormai orfana dei propri valori e privata dei punti di riferimento, e ridotta al soddisfacimento di pochi bisogni primari.
Con il consueto stile elegante, Thubron ci racconta le epiche imprese di Tamerlano, le migrazioni di popolazioni nomadi dalla Mongolia, la strenua resistenza delle religioni, musulmana in particolare, durante lo stalinismo. Laddove lingue, tradizioni, fede e culture si intrecciano resistendo alle dittature e alle guerre, i confini politici tracciati dall'impero sovietico si fanno labili, e sono l'umanità e il senso di appartenenza a stabilire dove finisce un mondo e ne inizia un altro. L'approccio oggettivo, neutro, tutt'altro che etnocentrico dell'autore non impedisce di mettere in luce le snervanti fragilità di popoli fiaccati da un susseguirsi di regimi corrotti e la potenziale pericolosità di dogmi religiosi e mistici ben radicati nei punti più remoti di questa immensa terra.
Ma sono la povertà e la progressiva distruzione di qualunque capacità produttiva (industriale, agricola, artigianale) ad esasperare la situazione sia nelle grandi città, un tempo risplendenti crogioli di culture e oggi abbandonate a se stesse, che negli sperduti villaggi verso il confine con la Cina.
Gli avvenimenti a cui oggi assistiamo ne sono, a distanza di poco più di un decennio, una tragica e prevedibile testimonianza.
Il cuore perduto dell'Asia è un libro eccellente, a tratti perfino leggero tanto da sollevarci lo spirito immerso nella tragedia di una terra che è quasi un continente a sé, ma sempre equilibrato. Una lettura che consiglio vivamente, come il già recensito In Siberia.
Colin Thubron
Il cuore perduto dell'Asia
Trad. di A. Cogolo
pp. 402
TEA Avventure, Prima edizione 2009
ISBN 978-88-502-1868-4
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