Acquistai e lessi questo libro anni fa, diciamo nel 2001, incuriosito dalla sinossi in quarta copertina e attirato dalla biografia dell'autore, sebbene mi infastidisse il titolo emerito, ma in bella evidenza, di Ammiraglio. Paura di non essere riconosciuto tra gli scaffali?
Già dall'introduzione di Andreotti - una confuso intervento apologetico - e dalle primissime pagine del testo, la delusione aveva preso il posto dell'iniziale entusiasmo. Ne ebbi conferma durante la lettura di questo noioso, autoreferenziale ed inutile amarcord. Perché, si sa, ci sono poche cose tediose quanto le memorie (parziali e incomplete) di un pensionato che scrive di sé e del proprio glorioso (si fa per dire) passato.
Dal punto di vista storiografico, documentale e scientifico, questo volume non ha alcun valore in quanto non contestualizza (se non con espressioni da bar del tipo al tempo c'erano i russi e gli americani) le vicende narrate né propone una esposizione organica degli equilibri politico-militari che fanno sfondo alle missioni di cui è stato protagonista. Ma, sopratutto, non fa menzione alcuna a ruoli, responsabilità e coinvolgimenti nell'organizzazione della struttura clandestina stay-behind (Gladio), attività per la quale Martini insieme ad altri ufficiali è stato imputato, processato ed ovviamente assolto (ci mancherebbe altro).
Non è quindi un libro utile né tantomeno scritto bene ma lo inserisco nel mio percorso Trame occulte a puro riferimento bibliografico.
23 agosto 2008
22 agosto 2008
Camillo Arcuri, Colpo di Stato.
Arcuri ha aspettato trent'anni per vuotare il sacco. Ha dovuto tenersi dentro a lungo un segreto grosso così, di quei segreti per i quali non è difficile lasciarci le penne per il gran numero di nomi, interessi ed equilibri.
Con Colpo di stato, l'autore può finalmente liberarsi di un peso. Perché la notizia, giuntagli 30 anni fa in forma confidenziale, era di quelle esplosive: qualcuno stava per organizzare un'azione volta a mutare profondamente gli equilibri istituzionali del Paese. In parole povere: un colpo di stato.
Ed è il golpe dell'Immacolata o del principe nero o golpe Borghese di cui Arcuri viene a conoscenza, un'azione militare voluta e guidata da Junio Valerio Borghese, il comandante della a X flottiglia MAS della Repubblica sociale, un manipolo di irriducibili fascisti assoldati con il denaro della grande industria e spalleggiati da eminenze grige ben radicate negli ambienti della massoneria deviata, dell'esercito, dei servizi.
Arcuri ricostruisce la genesi del golpe, ne descrive l'organizzazione, la messa in opera fino al misterioso contrordine per il quale nessuno, in quella piovosa notte romana, si rese conto che stava per essere sovvertito l'ordine istituzionale, democratico, repubblicano. Sullo sfondo altri misteri che si intrecciano nella storia italiana: la P2, il SID parallelo, i poteri forti dell'alleanza atlantica, i delicati equilibri medio orientali e del commercio del petrolio durante l'Italia del boom economico. Interessanti e pertinenti le riflessioni sulla morte di De Mattei.
Colpo di stato è un libro interessante e ben documentato, scritto tuttavia con uno stile poco accattivante e monotono. E' una lettura breve, ideale per chi vuole farsi un'idea dei segreti di pulcinella della prima repubblica.
Camillo Arcuri è anche autore di Sragione di stato, di cui scriverò a breve.
20 agosto 2008
Gianni Flamini, L'Italia dei colpi di stato.
Ho appena terminato questa appassionante e impegnativa lettura che affronta il tema, sconosciuto ai più, specialmente tra i giovani, dei tentativi di sovversione delle istituzioni democratiche nel nostro Paese.
Considero questo libro un capolavoro straordinario ed un documento indispensabile nello scaffale di un cittadino. Vediamo perché.
Gianni Flamini, giornalista, scrittore, già autore di un saggio sulla banda della Magliana, ha tre grandi pregi che raramente si riscontrano contemporaneamente:
- primo, è un ricercatore scrupoloso e obiettivo: quando si tratta di tirare le orecchie a burattinai e burattini, soldati di ventura e ideologi sanguinari, non fa distinzioni tra destra, sinistra, centro e vile pecunia;
- secondo, con onestà e coraggio snocciola un elenco impressionante di nomi e cognomi, luoghi, dettagli, testimonianze, episodi, azioni e trascorsi che mettono con le spalle al muro almeno tre generazioni di galantuomini che, dagli anni 60, si sono impegnati anima e corpo a dare all'Italia un'impronta quantomeno di presidenzialismo forte se non addirittura di autoritarismo;
- terzo, Flamini scrive dannatamente bene: ha un humour sprezzante e sarcastico, una prosa eloquente, uno stile giornalistico che appassiona e coinvolge come un romanzo. Non passa pagina senza una battuta salace, una metafora colorita, un commento pungente.
Flamini è un esperto di trame occulte davvero della prima ora: in pochi hanno scritto di un colpo di stato nel 1971, pochi mesi dopo che questo fosse messo in atto. In pochi ne scrivono tuttora, come se non ci fosse nulla di particolarmente preoccupante nell'aver nutrito per quarant'anni un nido di serpi sempre pronte a girare la testa e mordere la mano. Onore al merito.
Con L'Italia dei colpi di stato, l'autore ripercorre le tre grandi stagioni eversive della storia repubblicana, dal piano solo di De Lorenzo al golpe bianco di Edgardo Sogno. E siccome l'Italia è un Paese tremendamente complicato, Flamini svolge con successo il non facile compito di ricostruire le oscure vicende e gli intrighi più loschi che hanno avuto per protagonisti varie eminenze grigie, molti di casa nostra e alcuni provenienti da oltreoceano, senza trascurare le fratellanze -- più o meno segrete -- sempre a caccia di proseliti tra militari, barbe finte, industriali danarosi e politici non proprio incorruttibili.
Si conclude questa magnifica lettura con un senso di sgomento per l'impunità riservata a tanti e tali criminali, e di vergogna profonda per questa sorte di anestesia generale che sembra scorrere nelle vene degli italiani, inerti e indifferenti di fronte al pericolo reale di trovarsi, una mattina, dalla padella di una democrazia bloccata, corrotta e inefficiente, alla brace di un regime neofascista, plutocratico, militare e autoritario.
Considero questo libro un capolavoro straordinario ed un documento indispensabile nello scaffale di un cittadino. Vediamo perché.
Gianni Flamini, giornalista, scrittore, già autore di un saggio sulla banda della Magliana, ha tre grandi pregi che raramente si riscontrano contemporaneamente:
- primo, è un ricercatore scrupoloso e obiettivo: quando si tratta di tirare le orecchie a burattinai e burattini, soldati di ventura e ideologi sanguinari, non fa distinzioni tra destra, sinistra, centro e vile pecunia;
- secondo, con onestà e coraggio snocciola un elenco impressionante di nomi e cognomi, luoghi, dettagli, testimonianze, episodi, azioni e trascorsi che mettono con le spalle al muro almeno tre generazioni di galantuomini che, dagli anni 60, si sono impegnati anima e corpo a dare all'Italia un'impronta quantomeno di presidenzialismo forte se non addirittura di autoritarismo;
- terzo, Flamini scrive dannatamente bene: ha un humour sprezzante e sarcastico, una prosa eloquente, uno stile giornalistico che appassiona e coinvolge come un romanzo. Non passa pagina senza una battuta salace, una metafora colorita, un commento pungente.
Flamini è un esperto di trame occulte davvero della prima ora: in pochi hanno scritto di un colpo di stato nel 1971, pochi mesi dopo che questo fosse messo in atto. In pochi ne scrivono tuttora, come se non ci fosse nulla di particolarmente preoccupante nell'aver nutrito per quarant'anni un nido di serpi sempre pronte a girare la testa e mordere la mano. Onore al merito.
Con L'Italia dei colpi di stato, l'autore ripercorre le tre grandi stagioni eversive della storia repubblicana, dal piano solo di De Lorenzo al golpe bianco di Edgardo Sogno. E siccome l'Italia è un Paese tremendamente complicato, Flamini svolge con successo il non facile compito di ricostruire le oscure vicende e gli intrighi più loschi che hanno avuto per protagonisti varie eminenze grigie, molti di casa nostra e alcuni provenienti da oltreoceano, senza trascurare le fratellanze -- più o meno segrete -- sempre a caccia di proseliti tra militari, barbe finte, industriali danarosi e politici non proprio incorruttibili.
Si conclude questa magnifica lettura con un senso di sgomento per l'impunità riservata a tanti e tali criminali, e di vergogna profonda per questa sorte di anestesia generale che sembra scorrere nelle vene degli italiani, inerti e indifferenti di fronte al pericolo reale di trovarsi, una mattina, dalla padella di una democrazia bloccata, corrotta e inefficiente, alla brace di un regime neofascista, plutocratico, militare e autoritario.
17 agosto 2008
Torino - Moncenisio - Modane con la V-Strom.
La sveglia è presto per essere domenica, le 8 puntuali con la caffettiera già pronta dalla sera prima. E' una di quelle mattine da motociclisti che in realtà inizia il sabato con la preparazione del percorso e l'occhio frenetico sulle previsioni del tempo. I siti di meteorologia diventano squadre di calcio per cui tifare: si tiene per quelli che danno bello stabile, e quelli che dicono pioggia li vorresti vedere in serie C.
Ma inizia ancora a prima con la messa a punto della Suzuki V-Strom: che va lavata, controllata, tirata a lucido, uno schianto insomma. Poi c'è il WD40 e il chain lube per pulire e ingrassare la catena a dovere. Perché tra qualche ora girerà parecchio. Tutto a posto, si può spegnere la luce e chiudere la porta del garage.
Se vivi a Torino e hai un solo giorno a disposizione, puoi andare al mare oppure in Francia. Con Matteo, che ha una Street Triple nera come la notte, abbiamo scelto la seconda opzione.
L'idea iniziale era Torino-Moncenisio-Monginevro-Torino. Ma anche la versione breve (Torino-Moncenisio e ritorno) non è da scartare, anzi: la Susa-Moncenisio è una classicissima.
Imbocchiamo la SS25 del Moncenisio da Corso Francia in direzione Val di Susa, e fino a Susa è un calvario: semafori, limiti di velocità (molti giusti, alcuni proprio assurdi), deviazioni per lavori. Un consiglio: a Susa arrivateci in un altro modo.
Da lì in poi, però, si gode, e parecchio. Il versante italiano ha curve strette e tornanti. Se stai dietro un camper sei fregato, almeno fino al primo, breve rettilineo. Se non hai nessuno davanti, è un divertimento: accelerate, staccate, pieghe. A onor del vero, quasi tutto il manto stradale è stato asfaltato di recente tanto che manca ancora la segnaletica orizzontale. Sulla piana di San Marino c'è un autovelox impostato a 70 kmh. Occhio.
A Barcenisio, ultimo avamposto italiano prima della frontiera, rivedo la grossa casa FUCI dove trascorrevo le vacanze con la parrocchia. Era l'87-88, grosso modo.
Passata l'ex frontiera, si affrontano gli ultimi tornanti fino ad arrivare al valico del Moncenisio, quota 2083 m slm.
Troviamo un anziano signore disposto a scattarci un paio di foto, visibilmente storte.
La vista sull'invaso artificiale è mozzafiato, le moto tante, le BMW di più, se possibile.
Nel misto stretto la V-Strom è a proprio agio (nei limiti del pilota) anche se si paga il peso non indifferente del veicolo che fa sentire la mancanza di qualche CV in più oppure di un dente in meno nel pignone. Fino a qui sono circa 130 km dalla partenza (Settimo Torinese). La temperatura scende, indossiamo il pile sotto la giacca.
Oltrepassato il valico, la parte francese si rivela la più interessante e divertente: le strade sono più larghe e consentono curve ampie e molto veloci. Si fa meno ricorso al cambio e non è inusuale tirare la sesta per un bel po'. L'asfalto è più vissuto e rappezzato rispetto alla parte italiana ma le vibrazioni non sono fastidiose. Qui la V-Strom ha dato il meglio di sé, correndo come un treno, incollata alla strada come un geco. Anche i vituperati Metzeler di serie si comportano onestamente.
A Termingnon ci fermiamo a comprare quattro tipi di formaggi (vacca e pecora) davvero ottimi e una baguette, e come due barboni pranziamo su una panchina. Acqua della fontanella, che signori.
Mezz'oretta di strada pause comprese e arriviamo a Modane, non esattamente un posto allegro. dove chiediamo indicazioni per il Monginevro, che è ancora lontano (99 km) e dove le nuvole grige si addensano nel cielo. Due valide ragioni per girare le moto e percorrere la strada a ritroso. Nuovamente, salite e discese del versante francese sono divertenti e non richiedono l'impegno necessario per i tornanti italiani. La paura di prendere un acquazzone mi mette il turbo e in meno di mezz'ora siamo di nuovo al lago del Moncenisio.
L'idea è percorrere in due sul mio V-Strom la strada sterrata che dalla statale porta alla diga sul lago. Ma dopo i primi metri, la mia imperizia fuoristradistica ci costringe ad un brusco dietro fornt, onde evitare una rovinosa caduta da fermo per il sollazzo dei turisti. Il lago lo guardiamo dall'alto, va bene anche così.
Si torna sull'asfalto e si punta verso Torino, con tappa nella sempre splendida Avigliana, trasformata per le ferie d'agosto in una città fantasma. Mancano i cespugli che rotolano e c'è tutto.
In sintesi. Il percorso è notevole, sia dal punto di vista del percorso motociclistico che della bellezza del paesaggio. Molti tratti meritano di rallentare per godere della vegetazione e delle linee dei monti.
Tempo permettendo, la versione completa del percorso (con rientro in Italia dal valico del Monginevro) sarebbe ancor più interessante.
La V-Strom, con gomme e motore in temperatura d'esercizio, è andata benone, e anche molto forte. Rispetto allo stress test a pieno carico della Corsica, di cui scriverò, viaggiando leggero non ho rilevato criticità agli ammortizzatori. Le gomme, data la natura dell'asfalto, hanno dato discrete performance e mantenuto un adeguato livello di sicurezza. I freni sono sempre un po' lunghi ma, grazie al poderoso freno motore, si usano poco, solo in staccata. Infine i consumi sono stati più che soddisfacenti nonostante le lunghe e ripide salite, i sorpassi e l'andatura non esattamente costante del percorso.
Scheda del percorso:
Lunghezza: circa 270 km
Tipo di strada: asfalto
Difficoltà: media; alcuni tratti un po' impegnativi
Dislivello: circa 1850 m (Torino 230 m slm, Moncenisio: 2083 m slm)
Ma inizia ancora a prima con la messa a punto della Suzuki V-Strom: che va lavata, controllata, tirata a lucido, uno schianto insomma. Poi c'è il WD40 e il chain lube per pulire e ingrassare la catena a dovere. Perché tra qualche ora girerà parecchio. Tutto a posto, si può spegnere la luce e chiudere la porta del garage.
Se vivi a Torino e hai un solo giorno a disposizione, puoi andare al mare oppure in Francia. Con Matteo, che ha una Street Triple nera come la notte, abbiamo scelto la seconda opzione.
L'idea iniziale era Torino-Moncenisio-Monginevro-Torino. Ma anche la versione breve (Torino-Moncenisio e ritorno) non è da scartare, anzi: la Susa-Moncenisio è una classicissima.
Visualizzazione ingrandita della mappa
Imbocchiamo la SS25 del Moncenisio da Corso Francia in direzione Val di Susa, e fino a Susa è un calvario: semafori, limiti di velocità (molti giusti, alcuni proprio assurdi), deviazioni per lavori. Un consiglio: a Susa arrivateci in un altro modo.
Da lì in poi, però, si gode, e parecchio. Il versante italiano ha curve strette e tornanti. Se stai dietro un camper sei fregato, almeno fino al primo, breve rettilineo. Se non hai nessuno davanti, è un divertimento: accelerate, staccate, pieghe. A onor del vero, quasi tutto il manto stradale è stato asfaltato di recente tanto che manca ancora la segnaletica orizzontale. Sulla piana di San Marino c'è un autovelox impostato a 70 kmh. Occhio.
A Barcenisio, ultimo avamposto italiano prima della frontiera, rivedo la grossa casa FUCI dove trascorrevo le vacanze con la parrocchia. Era l'87-88, grosso modo.
Passata l'ex frontiera, si affrontano gli ultimi tornanti fino ad arrivare al valico del Moncenisio, quota 2083 m slm.
Troviamo un anziano signore disposto a scattarci un paio di foto, visibilmente storte.
La vista sull'invaso artificiale è mozzafiato, le moto tante, le BMW di più, se possibile.
Nel misto stretto la V-Strom è a proprio agio (nei limiti del pilota) anche se si paga il peso non indifferente del veicolo che fa sentire la mancanza di qualche CV in più oppure di un dente in meno nel pignone. Fino a qui sono circa 130 km dalla partenza (Settimo Torinese). La temperatura scende, indossiamo il pile sotto la giacca.
Oltrepassato il valico, la parte francese si rivela la più interessante e divertente: le strade sono più larghe e consentono curve ampie e molto veloci. Si fa meno ricorso al cambio e non è inusuale tirare la sesta per un bel po'. L'asfalto è più vissuto e rappezzato rispetto alla parte italiana ma le vibrazioni non sono fastidiose. Qui la V-Strom ha dato il meglio di sé, correndo come un treno, incollata alla strada come un geco. Anche i vituperati Metzeler di serie si comportano onestamente.
A Termingnon ci fermiamo a comprare quattro tipi di formaggi (vacca e pecora) davvero ottimi e una baguette, e come due barboni pranziamo su una panchina. Acqua della fontanella, che signori.
Mezz'oretta di strada pause comprese e arriviamo a Modane, non esattamente un posto allegro. dove chiediamo indicazioni per il Monginevro, che è ancora lontano (99 km) e dove le nuvole grige si addensano nel cielo. Due valide ragioni per girare le moto e percorrere la strada a ritroso. Nuovamente, salite e discese del versante francese sono divertenti e non richiedono l'impegno necessario per i tornanti italiani. La paura di prendere un acquazzone mi mette il turbo e in meno di mezz'ora siamo di nuovo al lago del Moncenisio.
L'idea è percorrere in due sul mio V-Strom la strada sterrata che dalla statale porta alla diga sul lago. Ma dopo i primi metri, la mia imperizia fuoristradistica ci costringe ad un brusco dietro fornt, onde evitare una rovinosa caduta da fermo per il sollazzo dei turisti. Il lago lo guardiamo dall'alto, va bene anche così.
Si torna sull'asfalto e si punta verso Torino, con tappa nella sempre splendida Avigliana, trasformata per le ferie d'agosto in una città fantasma. Mancano i cespugli che rotolano e c'è tutto.
In sintesi. Il percorso è notevole, sia dal punto di vista del percorso motociclistico che della bellezza del paesaggio. Molti tratti meritano di rallentare per godere della vegetazione e delle linee dei monti.
Tempo permettendo, la versione completa del percorso (con rientro in Italia dal valico del Monginevro) sarebbe ancor più interessante.
La V-Strom, con gomme e motore in temperatura d'esercizio, è andata benone, e anche molto forte. Rispetto allo stress test a pieno carico della Corsica, di cui scriverò, viaggiando leggero non ho rilevato criticità agli ammortizzatori. Le gomme, data la natura dell'asfalto, hanno dato discrete performance e mantenuto un adeguato livello di sicurezza. I freni sono sempre un po' lunghi ma, grazie al poderoso freno motore, si usano poco, solo in staccata. Infine i consumi sono stati più che soddisfacenti nonostante le lunghe e ripide salite, i sorpassi e l'andatura non esattamente costante del percorso.
Scheda del percorso:
Lunghezza: circa 270 km
Tipo di strada: asfalto
Difficoltà: media; alcuni tratti un po' impegnativi
Dislivello: circa 1850 m (Torino 230 m slm, Moncenisio: 2083 m slm)
06 agosto 2008
Verso la Corsica.
E stavolta in moto. Per conigliaggine (e coglionaggine), la V-Strom è rimasta in garage mentre si andava sulle Alpi. Stavolta invece non ho scampo perché anche il traghetto Moby mi aspetta su due ruote.
Pare che il test drive sia impegnativo, vuoi per le strade vuoi per i còrsi che guidano alla stevemcqueen.
Equipaggiamento leggero a parte il tratto Torino-Genova. Di questo passo, finisco per guidare in crocs e shorts.
Pare che il test drive sia impegnativo, vuoi per le strade vuoi per i còrsi che guidano alla stevemcqueen.
Equipaggiamento leggero a parte il tratto Torino-Genova. Di questo passo, finisco per guidare in crocs e shorts.
26 luglio 2008
Luce di cortesia per bauletti Givi.
Quante volte parcheggiando la moto di sera, al buio, avete faticato a trovare qualcosa dentro il bauletto, magari le chiavi di casa o il telefonino? A me è successo spesso, così ho iniziato a cercare un punto luce compatto da sistemare all'interno del mio bauletto Givi Maxia 52, uno tra i più diffusi su moto e scooters.
Nei supermercati e nei negozi di fai-da-te ho trovato un punto luce Osram a 3 LED, molto ingombrante. Scartato.
Sono andato in un negozio di componenti elettronici, ma non aveva nulla di pronto che mi soddisfacesse.
Dopo un po' di insistenze il commesso mi ha mostrato una striscia di LED bianchi che viene tagliata da un rotolo, come i cavi elettrici, simile a questa. Il grande vantaggio è di essere adesiva in modo da essere incollata su qualunque superficie liscia.
Ho pertanto deciso di realizzare una semplice ma potente luce di cortesia per bauletto basata su questo simpatico gadget.
Se volete fare altrettanto, ecco cosa vi serve:
Per ottimizzare gli spazi e fare un "lavoro pulito", ho optato per utilizzare il solo portadocumenti presente all'interno del bauletto (vedi foto) . Si tratta di una tasca di plastica avvitata in due punti sul coperchio superiore del bauletto ed apribile mediante snodo. La profondità interna massima è sufficiente per alloggiare una comune pila da 9V, un interruttore e un po' di cablaggio.
La prima foto mostra i pochi componenti necessari.
Per prima cosa ho ritagliato un piccolo spazio sul fianchetto del portadocumenti per alloggiare il micro switch e l'ho saldamente incollato con colla Attak in gel.
Quindi ho proceduto con la parte più difficile: le saldature dei cavetti di alimentazione (quelli del portapila 9V) sul LED strip. Non trovando alcuna informazione in rete, ho proceduto per tentativi. Non è facile, perché il retro della striscia è coperta di gomma adesiva che fa asportata per trovare le piste di rame. Occorre praticare due piccoli fori sulle piste di rame e quindi saldarvi i capi dei cavetti di alimentazione, rispettando il segno + e il segno -. Io li ho saldati sul retro per motivi estetici, ma non sono certo che sia la cosa più saggia. Forse era meglio saldarli dalla parte superiore.
Fatto questo, ho interposto il micro swith ai cavetti di alimentazione. Successivamente ho rimosso la pellicola protettiva dal retro del LED strip e l'ho incollata sul portadocumenti, in prossimità degli snodi. Infine ho assicurato la pila all'interno con un po' di nastro biadesivo (di quelli spessi, con una sottile gommapiuma in mezzo), ho verificato che tutto funzionasse (yuppi!) e ho rimontato il portadocumenti all'interno del bauletto.
Le foto mostrano le fasi del lavoro.
Il risultato è ottimo. Il LED strip, sebbene sottoalimentato (tensione nominale 12 VCC) produce una luce bianca intensa e forte. L'ho provato in una stanza buia e fa un bell'effetto oltre che il suo lavoro. Speriamo che sia resistente alle vibrazioni.
Ma non gloriamoci. Ecco i mie errori o, meglio quello, che ho imparato e che si può migliorare:
Ogni commento e suggerimento sarà gradito, via email (la trovate nel sito) o con commenti al post.
AGGIORNAMENTO.
Mi segnalano che per il Givi E46 un accessorio simile (ma più grosso e non a LED!!) esiste.
Nei supermercati e nei negozi di fai-da-te ho trovato un punto luce Osram a 3 LED, molto ingombrante. Scartato.
Sono andato in un negozio di componenti elettronici, ma non aveva nulla di pronto che mi soddisfacesse.
Dopo un po' di insistenze il commesso mi ha mostrato una striscia di LED bianchi che viene tagliata da un rotolo, come i cavi elettrici, simile a questa. Il grande vantaggio è di essere adesiva in modo da essere incollata su qualunque superficie liscia.
Ho pertanto deciso di realizzare una semplice ma potente luce di cortesia per bauletto basata su questo simpatico gadget.
Se volete fare altrettanto, ecco cosa vi serve:
- LED strip, una striscia adesiva di LED ad alta intensità, venduta a gruppi di 3. Io ne ho presi 6. Alimentazione 12VCC, ma 9 sono OK.
- 1 mini slide switch (interruttore)
- 1 pila da 9V
- 1 clip per pile da 9V
- stagno, saldatore, pasta salda
- nastro biadesivo
Per ottimizzare gli spazi e fare un "lavoro pulito", ho optato per utilizzare il solo portadocumenti presente all'interno del bauletto (vedi foto) . Si tratta di una tasca di plastica avvitata in due punti sul coperchio superiore del bauletto ed apribile mediante snodo. La profondità interna massima è sufficiente per alloggiare una comune pila da 9V, un interruttore e un po' di cablaggio.
La prima foto mostra i pochi componenti necessari.
Per prima cosa ho ritagliato un piccolo spazio sul fianchetto del portadocumenti per alloggiare il micro switch e l'ho saldamente incollato con colla Attak in gel.
Quindi ho proceduto con la parte più difficile: le saldature dei cavetti di alimentazione (quelli del portapila 9V) sul LED strip. Non trovando alcuna informazione in rete, ho proceduto per tentativi. Non è facile, perché il retro della striscia è coperta di gomma adesiva che fa asportata per trovare le piste di rame. Occorre praticare due piccoli fori sulle piste di rame e quindi saldarvi i capi dei cavetti di alimentazione, rispettando il segno + e il segno -. Io li ho saldati sul retro per motivi estetici, ma non sono certo che sia la cosa più saggia. Forse era meglio saldarli dalla parte superiore.
Fatto questo, ho interposto il micro swith ai cavetti di alimentazione. Successivamente ho rimosso la pellicola protettiva dal retro del LED strip e l'ho incollata sul portadocumenti, in prossimità degli snodi. Infine ho assicurato la pila all'interno con un po' di nastro biadesivo (di quelli spessi, con una sottile gommapiuma in mezzo), ho verificato che tutto funzionasse (yuppi!) e ho rimontato il portadocumenti all'interno del bauletto.
Le foto mostrano le fasi del lavoro.
Il portadocumenti Givi e i componenti usati. Clicca per ingrandire.
Particolare della batteria da 9V e del micro switch incollato sul fianchetto del portadocumenti. Clicca per ingrandire.
Il LED strip montato vicino allo snodo del portadocumenti (LED spenti). Clicca per ingrandire.
Il LED strip montato vicino allo snodo del portadocumenti (LED accesi). Clicca per ingrandire.
Il punto luce sistemato nel bauletto (dopo aver rimontato il portadocumenti). Clicca per ingrandire.
Particolare della batteria da 9V e del micro switch incollato sul fianchetto del portadocumenti. Clicca per ingrandire.
Il LED strip montato vicino allo snodo del portadocumenti (LED spenti). Clicca per ingrandire.
Il LED strip montato vicino allo snodo del portadocumenti (LED accesi). Clicca per ingrandire.
Il punto luce sistemato nel bauletto (dopo aver rimontato il portadocumenti). Clicca per ingrandire.
Il risultato è ottimo. Il LED strip, sebbene sottoalimentato (tensione nominale 12 VCC) produce una luce bianca intensa e forte. L'ho provato in una stanza buia e fa un bell'effetto oltre che il suo lavoro. Speriamo che sia resistente alle vibrazioni.
Ma non gloriamoci. Ecco i mie errori o, meglio quello, che ho imparato e che si può migliorare:
- saldature sulle piste di rame del LED strip: le mie sono venute male, forse esiste una tecnica per renderle migliori e più sicure. Ogni suggerimento è benvenuto.
- La posizione: ho scelto la più vicina alla pila per motivi di cablaggio ma se il punto luce fosse posizionato nella parte alta del portadoc anziché in quella bassa, illuminerebbe meglio l'interno del bauletto, senza ombre.
Ogni commento e suggerimento sarà gradito, via email (la trovate nel sito) o con commenti al post.
AGGIORNAMENTO.
Mi segnalano che per il Givi E46 un accessorio simile (ma più grosso e non a LED!!) esiste.
23 luglio 2008
My life 2.0.
Perché a volte le cose cambiano.
Scrivo questo post da Venezia. Sono qui per lavoro. Non è la prima volta che bazzico Venezia per lavoro, e chi legge il mio blog lo sa.
Qualche settimana fa si è prospettata un'attività interessante e pertinente al mio profilo. A quanto pare anche il datore di lavoro era d'accordo. Potrebbe essere un'esperienza gratificante e una delle poche opportunità di crescita che finora mi sono state prospettate; per di più, mi consentirebbe di trasformare la mia passione per la fotografia in un progetto non privo di una qualche operatività.
Preferisco omettere i pochi dettagli di mia conoscenza, per un mix di riservatezza e scaramanzia. Ad esempio, sono ancora in attesa che la mia eventuale disponibilità a cambiare sede di lavoro per un periodo così lungo sia in qualche modo formalizzata. Per ora inizio a lavorare al progetto e aspetto che il telefono squilli.
Due anni a Venezia significano anche altro, ovviamente. Prima di tutto, lontananza. Da Torino, dove c'è la mia famiglia, qualche amico e la mia vita negli ultimi sette anni; da Genova, dove vivono i miei genitori e gli amici. A 33 anni, la maggior parte delle persone che conosco hanno una situazione stabile. Io ricomincio con un nuovo nomadismo, mettendoci tutto il mio entusiasmo e quelle due o tre cose che ho imparato negli ultimi dieci anni.
Lontano. Sì, abbastanza. 5 ore di treno, 4 se prendo l'alta velocità, più gli spicci per andare a Settimo. Non è uno scherzo, sia chiaro. Sapere che vedrò la mia famiglia solo nei weekend per i prossimi 2 anni, durante i quali dovrò viaggiare con una certa frequenza, non mi lascia indifferente. Quando mi guardo indietro mi rendo conto che, rispetto alla media, ho quietato veramente poco, e mi domando quanto sia frutto del destino e quanto il risultato della mia curiosità.
Poi ci sono le incognite lavorative che chiunque, dotato di un briciolo di onestà intellettuale, si porrebbe: diciamo tutte le domande della serie "sarò all'altezza del compito assegnatomi?"
Per ora, certezze poche. Pochissime. Finisco questa settimana a Venezia, magari riesco a fare anche qualche giorno di ferie, e poi a settembre vediamo che cosa succede.
Mi verrebbe istintivo, in un momento così particolare della mia vita personale eprofessionale, rivolgere ai miei amici una frase del tipo "Statemi vicino"; ma mi rendo conto che, in realtà, si va a stare semplicemente più lontani.
Me la caverò.
E' l'1.30 di mattina e manca poco all'inizio di un nuovo giorno. Dormire qualche ora non sarebbe una scelta sbagliata.
Buonanotte.
Scrivo questo post da Venezia. Sono qui per lavoro. Non è la prima volta che bazzico Venezia per lavoro, e chi legge il mio blog lo sa.
Dov'è la notizia, allora?
Prima di dare la notizia è necessaria una premessa che ha il sapore di un disclaimer. Ovvero: io per primo ho ben poche informazioni sul mio destino e sul mio futuro. Soprattutto, ho pochissime certezze. Di dettagli neanche a parlarne. Pertanto, è possibile che quanto sto per scrivere non accada o accada in maniera diversa. Sia quel che sia.
Passo alla notizia. Sono a Venezia per lavoro, dicevo. Ma stavolta, la cosa andrà un po' più per le lunghe. Diciamo un paio d'anni, forse qualcosa meno. Cerco di essere più esplicito: con una forma ancora da stabilirsi, e se tutto va per il verso giusto, per i prossimi due anni lavorerò al Future Centre di Telecom Italia a Venezia. Il che significa diverse cose.Qualche settimana fa si è prospettata un'attività interessante e pertinente al mio profilo. A quanto pare anche il datore di lavoro era d'accordo. Potrebbe essere un'esperienza gratificante e una delle poche opportunità di crescita che finora mi sono state prospettate; per di più, mi consentirebbe di trasformare la mia passione per la fotografia in un progetto non privo di una qualche operatività.
Preferisco omettere i pochi dettagli di mia conoscenza, per un mix di riservatezza e scaramanzia. Ad esempio, sono ancora in attesa che la mia eventuale disponibilità a cambiare sede di lavoro per un periodo così lungo sia in qualche modo formalizzata. Per ora inizio a lavorare al progetto e aspetto che il telefono squilli.
Due anni a Venezia significano anche altro, ovviamente. Prima di tutto, lontananza. Da Torino, dove c'è la mia famiglia, qualche amico e la mia vita negli ultimi sette anni; da Genova, dove vivono i miei genitori e gli amici. A 33 anni, la maggior parte delle persone che conosco hanno una situazione stabile. Io ricomincio con un nuovo nomadismo, mettendoci tutto il mio entusiasmo e quelle due o tre cose che ho imparato negli ultimi dieci anni.
Lontano. Sì, abbastanza. 5 ore di treno, 4 se prendo l'alta velocità, più gli spicci per andare a Settimo. Non è uno scherzo, sia chiaro. Sapere che vedrò la mia famiglia solo nei weekend per i prossimi 2 anni, durante i quali dovrò viaggiare con una certa frequenza, non mi lascia indifferente. Quando mi guardo indietro mi rendo conto che, rispetto alla media, ho quietato veramente poco, e mi domando quanto sia frutto del destino e quanto il risultato della mia curiosità.
Poi ci sono le incognite lavorative che chiunque, dotato di un briciolo di onestà intellettuale, si porrebbe: diciamo tutte le domande della serie "sarò all'altezza del compito assegnatomi?"
Per ora, certezze poche. Pochissime. Finisco questa settimana a Venezia, magari riesco a fare anche qualche giorno di ferie, e poi a settembre vediamo che cosa succede.
Mi verrebbe istintivo, in un momento così particolare della mia vita personale eprofessionale, rivolgere ai miei amici una frase del tipo "Statemi vicino"; ma mi rendo conto che, in realtà, si va a stare semplicemente più lontani.
Me la caverò.
E' l'1.30 di mattina e manca poco all'inizio di un nuovo giorno. Dormire qualche ora non sarebbe una scelta sbagliata.
Buonanotte.
19 luglio 2008
Ricambi.
Le macchine complesse sono fatte di parti piccole. Che a volte, per usura o incidente, si rompono o smettono di funzionare. Cose che capitano, no? Già. Però fanno incazzare, e vediamo perché.
- I ricambi costano uno sproposito. Ieri la mia V-Strom 650 è caduta, quasi da sola. Boh, avrò posizionato male il cavalletto laterale, chi lo sa. In una frazione di secondo, è passata dalla posizione eretta a quella supina. Conta dei danni: poca roba, grazie al cielo. Leva della frizione e freccia anteriore. E che sarà mai, ho pensato. Carrozzeria intatta, niente graffi. Va là, con 20 euro me la cavo. Sti bei cazzi. Freccia di plastica 42 euro, leva in alluminio 22 euro. 120.000 del vecchio conio per due affarini inconsistenti che ho dovuto pure recuperare dall'altro capo della città. Se non altro la sostituzione non è tra le più difficili.
- I progettisti meccanici sono dei sadici che si divertono a farti impazzire per sostiuire un pezzo. La pila dell'orologio dVespa di mia moglie si è scaricata. Ovviamente l'orologio non può prendere la sua beata corrente dalla batteria della Vespa, ci macherebbe. Ha una sua piletta di cui nessuno, a parte un santo di Motoforniture, conosce l'esatta dimensione. Quindi se si ha il culo di trovarla, poi bisogna anche montarla. Allora, per mongtare una cazzo piletta da 2 euro è necessario smontare in mille pezzi tutta la parte anteriore della Vespa, scollegare cavo del contachilometri e quasi tutta la cavetteria elettrica, nominare santi noti ed ignoti per arrivare finalmente ad una fessurina microscopica all'interno della quale bisogna armeggiare come un orologiqaio (anzi, un genetista al microscopio) per togliere la pila vecchia e mettere quella nuova. Poi si deve anche rimontare tutto. Ce la fate in meno di un'ora? Io non ci sono riuscito. Però ora l'orologio funziona. A Natale le regalo uno swatch.
18 luglio 2008
Death Magnetic, il nuovo album dei Metallica e le deluxe editions.
Chi ha seguito i miei scoop sul nuovo album dei Metallica sarà lieto di leggere queste righe.
Un incomprensibile sito (forse danese) ci svela che, oltre alla confezione standard del nuovo album dei Metallica, il quaretto ha annunciato che a settembre sarà disponibile una De Luxe edition, una sorta di busta sorpresa con ogni ben di dio. Ecco che cosa conterrà:
E, grazie ad una mia fonte, molto vicina ad una vecchia zia messicana di Truijljio (o come diavolo si scrive), ho saputo che in ottobre verrà rilasciata una Gold Extra De Luxe limited edition.
L'ottuagenaria ma ancora lucida vecchina, tra un sorso di tequila con verme e un morso al panino con peyote, ha riferito al mio confidente che la limited edition sarà confezionata in un grosso sacco di juta polveroso* e conterrà, nell'ordine:
---
* Fino ad esaurimento scorte. Packaging alternativi: busta di carta WalMart, sacchetto della lavanderia di un motel di Chicago, scatola da scarpe Nike, niente. In quest'ultima opzione, il materiale acquistato sarà gettato direttamente in una cassetta postale o in una discarica di Los Angeles, a discrezione di Hetfield.
Un incomprensibile sito (forse danese) ci svela che, oltre alla confezione standard del nuovo album dei Metallica, il quaretto ha annunciato che a settembre sarà disponibile una De Luxe edition, una sorta di busta sorpresa con ogni ben di dio. Ecco che cosa conterrà:
- 1 "Death Magnetic" CD (exclusive digipack version)
- 1 CD with demos of songs from "Death Magnetic" (10 songs)
- 1 "Making of `Death Magnetic`" DVD featuring never-before-seen material
- 1 exclusive "Death Magnetic" t-shirt (only available with the box set)
- 1 "Death Magnetic" flag
- A set of "Death Magnetic" guitar picks
- 1 fold-out, coffin box, poster with pictures of the band members
- 1 -USB memory stick with METALLICA logo (enables Digital download of "Death Magnetic" album)
E, grazie ad una mia fonte, molto vicina ad una vecchia zia messicana di Truijljio (o come diavolo si scrive), ho saputo che in ottobre verrà rilasciata una Gold Extra De Luxe limited edition.
L'ottuagenaria ma ancora lucida vecchina, tra un sorso di tequila con verme e un morso al panino con peyote, ha riferito al mio confidente che la limited edition sarà confezionata in un grosso sacco di juta polveroso* e conterrà, nell'ordine:
- 1 copia masterizzata di Death Magnetic, con alcune tracce che saltano e il titolo scritto a pennarello da Hetfield (possibili errori di ortografia)
- 1 t-shirt nera indossata da Hammet per cambiare il pannolino al neonato
- 1 t-shirt nera indossata da Hetfield per spurgare il pozzo nero della sua villa di Malibu
- 1 t-shirt nera indossata da Newsted per pulire il vomito di Hetfield in un motel di Stockton, CA
- un effetto personale di Newsted, a caso, sottrattogli dagli altri tre membri del gruppo mentre era impegnato a pulire il vomito di Urlich.
- 1 DVD porno, roba vecchia degli anni 90
- 1 paio di mutande bianche indossate da Hetfield durante un attacco di diarrea durato 3 giorni e causato da un'indigestione di zuppa di granchio a San Francisco (fino ad esaurimento scorte)
- 1 poster stropicciato di Samantha Fox o di Magic Johnson (a seconda delle disponibilità)
- una cassetta TDK-60 contente le registrazioni dei migliori rutti di Urlich compreso l'inno nazionale ruttato
- una lattina di birra, vuota
- un'altra lattina di birra, vuota.
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* Fino ad esaurimento scorte. Packaging alternativi: busta di carta WalMart, sacchetto della lavanderia di un motel di Chicago, scatola da scarpe Nike, niente. In quest'ultima opzione, il materiale acquistato sarà gettato direttamente in una cassetta postale o in una discarica di Los Angeles, a discrezione di Hetfield.
15 luglio 2008
Scarpe da moto XPD XJ H2OUT (by Spidi).
Questa mattina ho indossato per la prima volta le mie nuove scarpe da moto XPD, regalo degli amici per il mio 33mo compleanno.
Esteticamente si presentano come sneaker alte, tipo pallacanestro, con linee sobrie (soprattuto nel colore nero, le mie) e protezioni non vistose su caviglie e punta. Sono presenti alcuni punti catarifrangenti sul retro e sul lato esterno.
La prima sensazione è un po' claustrofobica per il piede, specie in questi giorni d'estate in cui si indossano scarpe leggere e aperte; la tomaia si adatta bene alla forma del piede. E' avvolgente, protettiva e non eccessivamente rigida. La caviglia può compiere ampi movimenti.
Una volta saliti in sella, la sorpresa è grande: il cambio diventa più rapido e preciso per l'aumentato spessore in punta rispetto ad una calzatura normale; il grip a terra è eccezionale, anche sul cemento liscio dei garage, che rende rischiose le operazioni di sosta e messa sul cavalletto del veicolo quando si usa un paio si scarpe estive a suola piatta e liscia; la protezione aerodinamica è totale.
Tale sicurezza si paga con una iniziale rigidità che si avverte non tanto in situazioni di guida quanto nella camminata e nell'uso "da ufficio". Tuttavia, una volta provate, queste XPD fanno capire quanto siano inadatte le scarpe non tecniche per affrontare percorsi superiori ai 10 km in sella ad una moto da 2 quintali come la mia Suzuki V-Strom.
Il pregio di queste XPD è quindi la loro natura ibrida: protettive quanto basta per viaggi ed escursioni, comode e gradevoli di aspetto per andare in ufficio senza sembrare un marziano. Queste calzature sono garantite impermenabili al 100%: lo verificherò alla prima pioggia.
Esteticamente si presentano come sneaker alte, tipo pallacanestro, con linee sobrie (soprattuto nel colore nero, le mie) e protezioni non vistose su caviglie e punta. Sono presenti alcuni punti catarifrangenti sul retro e sul lato esterno.
La prima sensazione è un po' claustrofobica per il piede, specie in questi giorni d'estate in cui si indossano scarpe leggere e aperte; la tomaia si adatta bene alla forma del piede. E' avvolgente, protettiva e non eccessivamente rigida. La caviglia può compiere ampi movimenti.
Una volta saliti in sella, la sorpresa è grande: il cambio diventa più rapido e preciso per l'aumentato spessore in punta rispetto ad una calzatura normale; il grip a terra è eccezionale, anche sul cemento liscio dei garage, che rende rischiose le operazioni di sosta e messa sul cavalletto del veicolo quando si usa un paio si scarpe estive a suola piatta e liscia; la protezione aerodinamica è totale.
Tale sicurezza si paga con una iniziale rigidità che si avverte non tanto in situazioni di guida quanto nella camminata e nell'uso "da ufficio". Tuttavia, una volta provate, queste XPD fanno capire quanto siano inadatte le scarpe non tecniche per affrontare percorsi superiori ai 10 km in sella ad una moto da 2 quintali come la mia Suzuki V-Strom.
Il pregio di queste XPD è quindi la loro natura ibrida: protettive quanto basta per viaggi ed escursioni, comode e gradevoli di aspetto per andare in ufficio senza sembrare un marziano. Queste calzature sono garantite impermenabili al 100%: lo verificherò alla prima pioggia.
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