23 febbraio 2007

La fiaba della rana e del luccio.

In un piccolo stagno viveva un luccio grande e forte, fiero della propria destrezza e delle lunghe file di denti aguzzi con cui cacciava le sue prede. Nuotava veloce tra le alghe e si sentiva invincibile, il vero padrone dello stagno: il luccio ormai ne conosceva ogni più piccola pietra e ogni minuscolo organismo.

Quando passava, nuotando flessuoso e imponente, tutti gli abitanti dello stagno abbassavano lo sguardo e gli davano strada, col timore di finire divorati tra le sue fauci. Il luccio lo sapeva, e si divertiva a minacciare questo e quello: "Scànsati, o ti mangio in un sol boccone!", ringhiava al mollusco, e quello tremava ossequioso.

Le cose andavano bene: c'era da mangiare a sufficienza, la pioggia alimentava lo stagno e il sole intiepidiva l'acqua.

In quello stagno viveva anche una rana, una semplice rana verde, con occhi grandi e umili. Se ne stava in disparte, cibandosi di zanzare e altri insetti, che avvinghiava con la lingua o nuotando silenziosamente. Sapeva di non essere né bella né forte né veloce.

Il luccio si divertiva a spaventarla e a prenderla in giro. Le passava accanto gonfiando il petto e le diceva: "Qui non c'è posto per te! Guarda come sei debole e insignificante, e guarda me, invece: quando nuoto i raggi del sole si riflettono sul mio mantello d'argento, e tutti gli abitanti mi temono. Quindi stai attenta se non vuoi diventare la mia cena!"

La rana non diceva nulla e continuava a starsene in disparte, accontendandosi di un po' d'acqua e di qualche insetto.

Venne un'estate calda e secca. Il cielo era sempre azzurro e non pioveva mai. Lentamente, l'acqua dello stagno comincio a prosciugarsi e il luccio, spaventato per le conseguenze, divenne sempre più crudele e aggressivo. Tutti speravano nella pioggia, e invece il sole splendeva alto nel cielo.

In capo a poche settimane, lo stagno si prosciugò ed il luccio, un tempo padrone incontrastato, forte e fiero, si trovò a boccheggiare sul fondo ormai asciutto, muovendo penosamente le pinne e la coda. Provò ad inveire contro la rana, ma le forze lo abbandonarono, e morì.

La rana guardò lo stagno asciutto, fece un balzo, poi un altro e un altro ancora, e a poca distanza trovò un altro stagno, dove l'acqua era fresca e gli insetti abbondanti.

22 febbraio 2007

(silenzio).

E figuriamoci se in questo turbinio di parole avrei aggiunto pure le mie.
Quelle che ci sono bastano e avanzano.

16 febbraio 2007

E non succede nulla, se non l'assenza.

C'è un significato simbolico nell'arsura di questo inverno. Le strade e i marciapiedi e le auto coperti di polvere sembrano dire polvere eri e polvere ritornerai.

Respiro male, e sto dimagrendo. Nessuna crescita.

Vorrei poter scrivere che stanno succedendo molte cose, e che non riesco a capirle o a gestirle. E invece è solo una lunga attesa, che non passa mai e non porta niente, come i turni di guardia in caserma.

Si aspetta l'alba per riniziare la stessa giornata: prendere ordini, pulire, mangiare, dormire. Non un nemico da combattere, non un colpo da sparare.

Sto passando le mie giornate ad erigere difese e scavare trincee per combattere solo contro me stesso. Lo faccio di nascosto, perché nella mia vita ho maschere, doveri e ruoli: c'è un lavoro che va fatto, ci sono persone da salutare. Per ora il meccanismo funziona.
Polvere eri e polvere ritornerai.
Magari più tardi, grazie. Ho ancora gambe forti e quel briciolo di gratitudine verso la vita che mi fa pensare che poteva andare peggio, molto peggio.

Ad esempio, incontrare il fesso che dice se non succede nulla dipende da te e dalle tue azioni, la tua vita è nelle tue mani. Grazie al cielo, vado in macchina, e parlo di rado con la gente.

13 febbraio 2007

Il fratello del figliuol prodigo.

Era ancora giorno che finalmente la terra ha avuto la pioggia. La polvere per qualche ora cederà il posto a piccole pozze di fango. Le erbacce cresceranno forti tra il catrame, i kleenex e i muri delle fabbriche. Poi tornerà la terra secca, la polvere.

Io faccio fatica. Lo sto pensando spesso. Speravo di uscire sotto uno scroscio d'acqua, e invece le strade si stavano asciugando.
Avrei voluto un po' di acqua sulla mia testa.
Acqua sporca.
Fatica. Sì.

Tutti ne fanno, di fatica, e il giorno è duro per tutti, come mi ricordava tempo fa un tale a cui ho alleviato centinaia di giorni, e dato riposo la notte. Ma d'altronde, chi non sopporta l'ingratitudine non faccia del bene. Dovrei tacere. Ma detesto gli ingrati.

E il giorno era ancora più duro allora, quando mio padre e mia madre scappavano sulle colline, lontano dai bombardieri tedeschi.
Ma certo, è sempre stata dura. E' sempre stata più dura. Eppure.
Eppure me se sto chino, ogni sacrosanto giorno, a lavorare la terra - metaforicamente, sia detto - e a contare le ore che separano il sonno dalla veglia, e la veglia dal sonno. Me ne sto qui, esule, straniero, nemico. Non so più qual è la mia casa, la mia famiglia.

E' finito un altro giorno. Mi chiedo cosa mi rimane. Poco. Un pensiero, nemmeno bello: che a lavorare la terra in silenzio ci si guadagna, tutt'al più, il dolore alla schiena.

(Gwen Raverat, The prodigal son)

12 febbraio 2007

Ho sempre viaggiato solo, con fatica.

Non piove e non c'è vento, e la polvere rimane a terra. Ad ogni ruota che corre sull'asfalto in viaggio verso chissà dove, la polvere si alza, volteggia, si posa sui rifiuti e sulle erbacce, e ricade a terra. Come morta.

I miei giorni e le mie notti si susseguono con rapidità, tutti molto uguali, e mi lasciano poche, sconsolanti certezze. Io credo che arrivi un punto nella vita in cui si crea un baratro insuperabile tra il proprio presente e il proprio passato. E mentre fino a qualche tempo fa era facile saltare dall'uno all'altro e rivivere, anche se per poche ore, la mia vita (quasi) spensierata di figlio, di studente o di soldato, oggi (metafora temporale: diciamo da qualche tempo) questo salto non è più possibile, e la mia vecchia vita la posso vedere solo da lontano, come dal finestrino di un treno che si allontana.

Così si acquisiscono poche, dolorose consapevolezze: ho impiegato gli ultimi dieci anni per persuadermi che la vita è un viaggio che si intraprende soli o, meno frequentemente, in cattiva compagnia. In nessun caso e per nessun motivo posso sperare di contare su qualcuno, al di fuori di me stesso. Io, nella vita mia e in quella degli altri, sono un viaggiatore solitario, con il mio bagaglio leggero, e la testa bassa. Ho sempre viaggiato solo, con fatica.

Ieri notte, domenica notte. Si alza un po' di foschia sulle mie finestre. Le mie misere cose perdono i loro miseri contorni. Tanto meglio, penso.

Girandomi da fianco a fianco, ho due soli desideri da esprimere: riuscire a far sgorgare una lacrima da questi miei occhi aperti nell'oscurità, e che questo giorno, questo terribile giorno abbia fine.

La sorte, buona o cattiva che sia, mi nega il primo: è destino che da questo mio cuore di pietra non si cavi una goccia di sangue.

Il tempo segue il corso naturale, e si porta via queste ultime, scellerate ore che mi separano da un'altra alba, esaudendo il mio piccolo, povero, secondo desiderio.

09 febbraio 2007

DRM sì, no, forse. (Ma per ora sì).

In questi ultimi giorni il web si è animato (succede ciclicamente) con un bel dibattito sulla protezione dei contenuti digitali, in particolare sul DRM per brani musicali.
Il bello è che gli animatori non sono i soliti oscuri geek, o qualche pasionario del tutto libero-tutto subito, ma i veri grandi della digital era.
Inizia le danze, e lo si è letto ovunque, Mr. Jobs che dice Cari amici, vorrei tanto non mettere il DRM nelle canzoni che comprate su iTunes, ma le major mi obbligano a farlo.
E le major - c'era da aspettarselo - non se ne sono state zitte né si sono cosparse il capo di cenere ammettendo che sì, in effetti, col DRM hanno un po' esagerato. Macché: gli hanno tirato le orecchie, a Mr. Jobs.
Poi ha alzato la mano un signore che di MP3 ne sa qualcosina, visto che è tra i sui inventori, per dire che un po' di DRM servirebbe, magari in forma più aperta e flessibile come propongono i ragazzi di Creative Commons, e non solo come appannaggio delle major.
Dulcis in fundo - almeno per ora - il fondatore di MP3.com Mr. Robertson è intervenuto per dire la sua contro Apple: il signor Jobs si lamenta del DRM imposto dalle major? E che allora inizia lui ad aprire iPod e iTunes.
Non fa una piega.
E mentre l'ala oltranzista, non meno caustica, conserva intatte le proprie idee, nascono nuove iniziative per regolamentare senza incatenare le informazioni digitali.
Who's next?

05 febbraio 2007

Tornando a Genova.

Stavo scrivendo nel titolo Tornando a casa, come se continuassi ad associare Genova alla mia idea di casa, come se l'alloggio per cui pago un mutuo e litigo con la società dell'acqua potabile ancora non fosse casa mia. Poi ho scritto Tornando a Genova, forse è più discreto così. Casa.
E' venerdì sera e me ne sto qui, accovacciato su un sedile di un Intercity sporco come un diretto e costoso come un Eurostar, con La versione di Barney sulle ginocchia, seguendo il corso dei miei pensieri. Sto andando a casa, me ne sto andando da casa.

Mi accorgo di un'altra associazione di idee piuttosto ricorrente nella mia testa matta: se penso al passato, penso al '95-'96. Questi due anni, non pirma né dopo. Ho la consapevolezza che anche il 1993 o il 1982 appartengono al mio passato, ma li considero anni di passaggio, non di svolta. Dal 1995 ho cominciato a dare una svolta alla mia vita, sperimentando fin dove poteva arrivare non tanto il mio autolesionismo quanto la mia mancanza d'amor proprio - una mancanza d'amore che naufrangava nell'odio. Non posso stare a scrivere qui in che cosa la metà dei '90 era diversa da oggi. Posso solo dire né Internet né la Fluoxetina erano alla portata dei poveri cristi come me. Eppure si arrivava a fine giornata lo stesso.
Casa.

Mentre il treno si avvicina a Brignole, mi avvicino alla porta e mi dedico ad origliare i discorsi dei passeggeri. In uno scompartimento di donne sole (non di sole donne, si badi bene), una zitella piena di sé sta tenendo una lezione sul tema Come ho sconfitto l'emicrania trasferendomi a Casale Monferrato. La poveretta dice teatralmente di aver vissuto 7 anni a Genova e di aver sofferto, per ogni giorno che il Signore mandava sulla terra, di una terribile emicrania dovuta al vento. Proprio così. La vecchia zitella era ossessionata dal vento, e ora nella sua cascina di Casale ( 500 mq su 3 piani più 1000 m di giardino, informa la pettegola) trascorre un'esietnza felice e senza mal di testa. Vorrei avere un briciolo di coraggio per prenderla per il collo e dirle che il vento ripulisce l'aria, porta via le polveri sottili e le nuvole, alza la qualità della vita. Ma no, lasciamola marcire nella sua amata nebbia, e chi se ne frega.

Casa, dicevo. Ultimamente sento il peso degli anni. Non i quasi 32 anni sulla mia schiena, ma gli anni dei miei genitori. Quando si vive lontani da casa, il tempo perde il suo andamento lineare e si trasforma in una sequenza di eventi che si succedono ad intervalli non sempre regolari. Tra un evento e l'altro passano generalmente un numero sufficiente giorni perché mi accorga che il tempo ha lasciato qualche segno. Ovviamente, in questo film io sono solo uno spettatore in terza fila: osservo da seduto e, quando le luci si riaccendono, mi alzo ed esco dalla sala. Altro non posso fare.

Vorrei solo avere più tempo.

Ho divagato. Ho iniziato scrivendo di uno dei miei ritorni a casa, ma in realtà sono andato fuori tema. Non importa. Non c'è più una frustrata insegnante di lettere a mettermi un 4 sul foglio protocollo. Questa, anche questa, è casa mia.

01 febbraio 2007

I panni sporchi lavateveli in famiglia/2.

Ecco, ora che lui ha chiesto scusa, è possibile liberare Repubblica dai loro scazzi personali?
O domani ci sarà il servizio esclusivo dei bacini di riconciliazione?
Che vomito.

31 gennaio 2007

I panni sporchi lavateveli in famiglia.

Sinceramente me ne frego se uno fa il cascamorto e l'altra la parte della cornuta.
Lanciatevi un sacrosanto servizio di piatti, e smettetela di rompere le palle su Repubblica.

30 gennaio 2007

Joe R. Lansdale, Freddo a luglio.

Ieri notte ho finito questo romanzo di Lansdale, a metà strada tra un poliziesco e i miei ricordi dei vecchi Stephen King, che leggevo il pomeriggio nella casa dei miei.

Allora, com'è questo libro? Domanda difficile. Credo che la traduzione, non tanto nella scelta delle parole quanto nella resa dei dialoghi e delle atmosfere, non renda pienamente giustizia al plot, che di per sé è intrigante e non del tutto scontato.

La scrittura resta comunque scorrevole e si rimane coinvolti nella narrazione abbellita da quel grandissimo dono di Lansdale, la capacità di creare metafore irriverenti e tremendamente suggestive.

I personaggi sono ben tratteggiati, e ognuno ha il proprio ruolo: Richard il corniciaio sotratto alla propria vita routinaria, Jim Bob il detective privato dalla parlata rude e i modi spicci, Russell il galeotto in cerca di redenzione attraverso un finale catartico.

È nel complesso un racconto gradevole, senza alcuna pretesa artistica o didascalica: è poco più di una storia raccontata intorno al fuoco, ma intrattiene e coinvolge, senza fronzoli. E, cosa assai rara, è (presumibilmente, causa la traduzione) ben scritto, con lo stile asciutto e immediato di questo ragazzaccio del Texas.

Difficile e forzato il paragone con i Drive-in o con Maneggiare con cura: In Freddo a luglio, Lansdale sceglie la realtà, magari un po' amplificata da qualche scena splatter, ma tutto sommato roba buona per un telefim poliziesco. Insomma, da leggere per occupare piacevolmente 3-4 giorni.