Partiamo dalla fine: il libro non mi è piaciuto particolarmente; mi ha lasciato insoddisfatto rispetto alle aspettative che mi ero creato per il titolo e la sinossi. Ritengo che l'opera letteraria di Ayala (i cui meriti professionali non sono in discussione) sia in qualche modo un risultato, se non modesto, quanto meno non eccezionale per due motivi principali:
1. L'eccessiva autoreferenzialità della narrazione. E' vero che il sottotitolo dovrebbe giustificare i continui e compiaciuti riferimenti ai meriti dell'autore, ma -- come dicevano i saggi -- chi si loda... Ne emerge un racconto che, pagina dopo pagina, si fa un po' prevedibile e quasi infantile, con espressioni "tutti i commenti erano per me...", "aveva per me un vero affetto", "anche quella volta avevo capito tutto". Ammetto di nutrire sempre un po' di sospetto verso chi cerca di portare prove e giustificazioni per affermare la propria autorevolezza: se c'è, si percepisce.
2. Lo stile "burocratese" della narrazione. La sensazione, arrivati all'ultima pagina, è che il dott. Ayala abbia scritto questo volume come ha scritto migliaia di pagine nella sua lunga carriera di magistrato. Se a questo si aggiungono i riportati di conversazioni tra colleghi, che l'autore non è riuscito a tradurre in dialoghi propriamente hemingwayani, ecco che la narrazione si fa faticosa, prevedibile, pedante.
Sollevato il velo stilistico, rimangono senz'altro i pregi della divulgazione di un capitolo fondamentale della nostra storia recente, la prima vera lotta dello Stato contro la mafia, vista dalla sua genesi, durante la sua massima forza (come il maxiprocesso) fino al suo declino, forse la parte più interessante per il lettore che può scorgere, nei capitolo conclusivi, il lavorio di un altro Stato, opaco e reazionario, quasi un'entità parallela impegnata nel disperdere la squadra di magistrati che aveva per prima, e a carissimo prezzo, osato sfidare cosa nostra, la sua struttura, i suoi giganteschi interessi economici.
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