Era ancora giorno che finalmente la terra ha avuto la pioggia. La polvere per qualche ora cederà il posto a piccole pozze di fango. Le erbacce cresceranno forti tra il catrame, i kleenex e i muri delle fabbriche. Poi tornerà la terra secca, la polvere.
Io faccio fatica. Lo sto pensando spesso. Speravo di uscire sotto uno scroscio d'acqua, e invece le strade si stavano asciugando.
Avrei voluto un po' di acqua sulla mia testa.
Acqua sporca.
Fatica. Sì.
Tutti ne fanno, di fatica, e il giorno è duro per tutti, come mi ricordava tempo fa un tale a cui ho alleviato centinaia di giorni, e dato riposo la notte. Ma d'altronde, chi non sopporta l'ingratitudine non faccia del bene. Dovrei tacere. Ma detesto gli ingrati.
E il giorno era ancora più duro allora, quando mio padre e mia madre scappavano sulle colline, lontano dai bombardieri tedeschi.
Ma certo, è sempre stata dura. E' sempre stata più dura. Eppure.
Eppure me se sto chino, ogni sacrosanto giorno, a lavorare la terra - metaforicamente, sia detto - e a contare le ore che separano il sonno dalla veglia, e la veglia dal sonno. Me ne sto qui, esule, straniero, nemico. Non so più qual è la mia casa, la mia famiglia.
E' finito un altro giorno. Mi chiedo cosa mi rimane. Poco. Un pensiero, nemmeno bello: che a lavorare la terra in silenzio ci si guadagna, tutt'al più, il dolore alla schiena.
(Gwen Raverat, The prodigal son)
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