03 aprile 2004
La luce fioca della lampada di Foer.
Jonathan Safran Foer
Ogni cosa è illuminata
Guanda, 2002
L'ho avuto in dono, copia personale di una lettrice entusiasta che ha detto È davvero un bel libro, divertente, ironico, diverso... Leggilo!
Raccoglievo in quei giorni pareri simili, e concordi: è un romanzo di profonda rottura con gli schemi narrativi e stilistici usuali, e il giovane Foer è un ragazzo geniale.
Messa da parte una volta tanto la mia proverbiale diffidenza verso i libri che si devono leggere perché li stanno leggendo tutti, ho affrontato l'opera prima di Foer, e ho trovato subito conferma in una voce comune: le prime 50 pagine sono dure da digerire. È stata in effetti una lettura lunga, travagliata, interrotta, con pochi, rari momenti di convinto piacere, fino al giungere all'ultima riga, e spegnere la luce.
Ogni cosa è illuminata non mi è piaciuto, e per due ordini di motivi.
In primo luogo non ritengo che vi sia alcunché di rivoluzionario nei registri e nello stile adoperati: a favore di molti predecessori di Foer (scomoderemo Joyce), il vantaggio temporale e una maggiore statura giocano un ruolo di rilievo.
La finzione del doppio narratore - con lo sbilanciamento verso l'ucraino Alex - non regge e annoia e stanca, col suo incedere difficoltoso ma disomogeneo nel tentativo di imitare l'inglese scritto da un russo. E non reggono i dialoghi, troppo lunghi e in stile così libero (capoversi in corsivo) da disorientare il lettore fino all'effetto del chi sta dicendo che cosa.
Secondariamente, la struttura narrativa articolata a flashback è artefatta e poco funzionale e sembra dirci di uno scrittore che ha premura di mettere tutte le cose al posto giusto. Il risultato sortito è una giustapposizione un po' ruffiana di elementi che non devono mancare di uscire dalla penna di uno scrittore americano di cultura ebraica che si rispetti: e allora vada per il recupero delle tradizioni centro europee, vada per un umorismo yddish che sa di mandato a memoria, vada per la saga familiare dove pare esserci posto solo per personaggi caricaturali (ma non privi di una certa intuizione creativa), vada infine per l'immancabile flusso di ricordi sulla Shoah. Ed è quest'ultimo aspetto che maggiormente mi irrita, come tutti i tentativi di salire sul treno di un dolore che sempre raccoglie consensi.
Foer è un rampollo della hi society newyorkese e non ha saputo esimersi dall'accodarsi a quel meraviglioso club, con Chaim Potok in testa, che ha fatto della cultura e della sagacia ebraica un momento altissimo della letteratura contemporanea, pur non avendone ancora le qualità e l'esperienza. Lo ritengo pertanto un inizio presuntuoso, un parlare di ferite sanguinanti per convenienza, non per convinzione. Che cosa ci insegna questo romanzo? Qual è la luce che dovrebbe illuminare le piccole cose di ogni nostro giorno? Ritrovare nel passato il senso del nostro presente? Senza approfittare dell'Olocausto, ricordo un gigantesco Piovene che, ne Le stelle fredde, fa apparire dalla nebbia il fantasma di Dostoevskj...
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